I primi due mesi della seconda presidenza Trump sono stati segnati da un registro decisamente nuovo e molto più aggressivo rispetto al passato, sia in campo politico che economico. Insieme alle contestate misure di politica interna – dalle deportazioni in massa degli immigrati ai tagli alla macchina federale, ai licenziamenti su larga scala dei dipendenti pubblici – questo nuovo registro è stato fonte di diffuse preoccupazioni, soprattutto in Europa. Proprio all’Europa, esponenti di primo piano dell’amministrazione non hanno risparmiato le critiche, con toni spesso ‘sopra le righe’. Le dichiarazioni sulla Groenlandia e sulla sua possibile annessione sono state una fonte ricorrente di tensioni e il tema dei dazi è affiorato ripetutamente. Introdotti davvero o soltanto minacciati, proprio i dazi sono stati, in più di un’occasione, la spada di Damocle che il Presidente – complice la studiata contraddittorietà delle sue dichiarazioni – ha sospeso sulla testa dei partner per ottenere da loro concessioni di vario tipo.

In attesa del ‘Liberation Day’ del 2 aprile, quando le misure previste entreranno in vigore, sulla politica dei dazi ci sono ancora poche certezze. Negli scorsi mesi sono circolate le voci più diverse riguardo ai possibili beni colpiti, all’entità della tariffa o ai paesi destinatari dai provvedimenti. Secondo l’amministrazione, le nuove misure dovrebbero servire a tre scopi: riequilibrare una bilancia commerciale oggi in forte deficit (918,4 miliardi di dollari nel 2024, in aumento di 133,5 miliardi rispetto all’anno precedente secondo i dati del Bureau of Economic Analysis del Dipartimento del commercio), ridurre il debito pubblico calmierando, allo stesso tempo, la pressione fiscale e promuovere il reshoring, il ‘ritorno a casa’ della capacità industriale americana che Trump ha indicato come una delle priorità della sua presidenza. La politica dei dazi si inquadra, infine, nel modello di diplomazia coercitiva che la Casa Bianca sembra avere scelto come strumento privilegiato per conseguire i suoi obiettivi in campo internazionale.

In questa prospettiva, proprio l’aspetto ‘muscolare’ appare forse il vero tratto distintivo della nuova amministrazione. Abbandonata la tradizionale attenzione ai temi del soft power, gli Stati Uniti del 2025 sembrano avere abbracciato una forma radicalizzata dell’approccio transazionale che già si era affacciato durante la prima presidenza Trump. Un approccio che – come hanno sperimentato i paesi europei – tiene poco conto della dicotomia alleati/avversari e sfrutta la posizione di forza di Washington per massimizzare i vantaggi che il paese può raccogliere. L’atteggiamento spregiudicato con cui la Casa Bianca sta gestendo la questione dei negoziati di pace in Ucraina, puntando a disimpegnare gli Stati Uniti da un teatro ormai secondario ‘monetizzando’ al contempo il loro coinvolgimento passato e presente attraverso il c.d. ‘accordo sulle terre rare’, è un esempio chiaro di questo modo di procedere e di come la ricerca di benefici facilmente spendibili faccia premio sulla costruzione di un consenso a lungo termine.

Questa logica sembra valere anche nel campo degli idrocarburi. Il giorno stesso dell’insediamento, il Presidente ha firmato un ordine esecutivo che dichiara l’esistenza di un’emergenza energetica nazionale, un provvedimento sinora mai adottato, nemmeno in occasione delle crisi degli anni Settanta. In seguito a ciò, Trump ha siglato una direttiva (Unleashing American Energy) volta ad accelerare lo sviluppo di trivellazioni e oleodotti e a incoraggiare l’esplorazione e la produzione di petrolio e gas naturale sulle terre federali, anche con la revisione dell’attuale legislazione ambientale e l’allentamento dei vincoli in vigore. Ancora una volta, l’obiettivo dichiarato è duplice: da un lato, alimentare la reindustrializzazione e il reshoring attraverso l’offerta di energia a basso prezzo a industria e consumatori, dall’altra consolidare la posizione di preminenza degli Stati Uniti sui mercati internazionali in modo da accrescere la loro forza negoziale e guadagnare leva nei negoziati con i propri interlocutori.

L’interrogativo riguarda il modo in cui reagiranno gli operatori e i potenziali acquirenti alle scelte della Casa Bianca. Alcuni osservatori hanno ipotizzato che l’andamento dei prezzi e le forze di mercato potrebbero dissuadere le compagnie energetiche dall’intensificare l’attività di trivellazione. Inoltre, molte delle direttive approvate in questi mesi dovranno affrontare in tribunale i ricorsi presentati dalla galassia eterogenea di movimenti che vi si oppongono; uno scenario che alimenta l’incertezza e che potrebbe anch’esso spingere gli investitori alla cautela. Significativamente, le compagnie statunitensi non hanno ancora presentato alcun piano particolare per espandere le loro attività di esplorazione e produzione (E&P) né sulle terre federali dall’Alaska né nella piattaforma continentale esterna (Outer Continental Shelf) e lo scenario che si profila non appare molto diverso da quello di crescita moderata che la Energy Information Agency tratteggiava prima dell’insediamento della nuova Amministrazione.

A livello internazionale, l’uso della leva energetica come strumento della diplomazia coercitiva potrebbe indurre i partner di Washington a rivedere le loro scelte di acquisto e a differenziare lo spettro dei fornitori. A questo livello, le scelte che faranno i paesi OPEC+ avranno un ruolo importante nel favorire il possibile riorientamento della domanda. Tuttavia, anche qui, le incognite non mancano. Il futuro dei negoziati in Ucraina e la possibile normalizzazione della posizione internazionale di Mosca potrebbero favorire un significativo ritorno della Russia sui mercati; di contro, l’instabilità che continua a dominare la scena mediorientale e l’eventuale riaccendersi delle tensioni con l’Iran potrebbero avere ricadute negative sull’offerta di quella che resta una regione-chiave per gli equilibri energetici globali. L’eventuale uso di dazi per promuovere l’acquisto di Oil&Gas statunitense (una possibilità che Trump ha già paventato) è un’ulteriore variabile da tenere in conto e i cui effetti appaiono difficilmente prevedibili.

Quello che è certo è che, con la nuova amministrazione, gli strumenti dell’assertività statunitense sembrano destinati a essere più evidenti e l’egemonia meno ‘benevola’ che in passato. Al di là di benefici che potrà avere sull’immediato, i limiti sul lungo periodo di questa politica – soprattutto nei confronti degli alleati storici – sono stati ampiamente evidenziati. L’intreccio di politica ed economia e l’uso della leva economica per portare avanti la diplomazia coercitiva della Casa Bianca appare altrettanto rischioso. L’emergere di un fronte comune fra Cina, Giappone e Corea del Sud per rispondere alla minaccia dei dazi statunitensi, se si concretizzerà, potrebbe essere il primo segnale di un più ampio riallineamento degli equilibri geopolitici globali. Si tratterà, in ogni caso, di un processo lungo e complesso, anche perché, su altri fronti – primo fra tutti quello europeo – le divisioni che già esistono fra i diversi paesi potrebbero rendere pagante una strategia divide et impera che la stessa UE ha mostrato di temere.