La concorrenza per l'affidamento di servizi o lo sfruttamento di risorse pubbliche è passata di moda in Italia? Sembrano suggerirlo, con poche eccezioni, non solo le cronache degli ultimi anni, ma più che mai quella recente e recentissima. Dalle spiagge al geotermico, dall'idroelettrico alle concessioni per la distribuzione elettrica e gas, in meno di sei mesi è stata decisa, discussa con insistenza o semplicemente sancita nei fatti la rinuncia allo (o l'irrilevanza dello) strumento delle gare, pur previsto da normative nazionali o UE.

Già qualche anno fa veniva spontaneo riflettere sulla strana maledizione che nel nostro Paese sembra affliggere gli affidamenti a gara, in particolare nell'energia: la contraddizione tra la prontezza del legislatore a indicarli come il meccanismo ideale per una quantità di cose e la tendenza poi ad disinteressarsi che funzionino davvero. L'impressione, da diversi anni, è che, se a cavallo del secolo l'orientamento dominante nella regolazione dei mercati era effettivamente quello di favorire la competizione nel o, dove ciò è impossibile, per il mercato, Parlamento e governi italiani l'abbiano recepito con qualche leggerezza, o quantomeno senza intenderne appieno le implicazioni. 

Si è così omesso di considerare ed affrontare per tempo una serie di problemi chiave, di diverso ordine ma essenzialmente legati alla resistenza che i portatori di interessi coinvolti inevitabilmente avrebbero opposto, non solo i titolari uscenti (com'è ovvio poco ansiosi di uscire), ma anche i soggetti concedenti, spesso troppo economicamente dipendenti dal vecchio assetto per collaborare.

Il caso più eclatante è forse l'idroelettrico: sulle grandi derivazioni la convinzione con cui un quarto di secolo fa si decise di renderle contendibili da lì a 30 anni - esempio unico tra i grandi paesi con questa tecnologia, scolpito infine nella pietra del PNRR - fa il paio col disinteresse degli anni successivi che ciò avvenisse nei fatti.

Un vuoto di iniziativa e di progetto che ha lasciato spazio alla fronda dei concessionari (fattasi guerriglia con l'avvicinarsi delle scadenze) e ai non meno prosaici appetiti del "federalismo elettrico", portandoci infine al braccio di ferro un po' grottesco di questi mesi.  

Anche la distribuzione gas, le cui procedure di gara non sono previste dalla normativa comunitaria, che pure ha goduto per un certo periodo di una maggior attenzione del legislatore, non è stata esente dal problema. 
L'infinito cantiere della normativa sulle gare  è sfociato ripetutamente in vicoli ciechi, vittima di spinte contrapposte dei diversi portatori di interessi (alcuni dei quali poco saggiamente trascurati) da cui le autorità competenti non hanno saputo difenderlo.

Se però fino a qualche anno fa il decisore pubblico sembrava subire – almeno formalmente - le sfortune delle gare, quello a cui si è assistito più di recente pare un salto di qualità in cui è lo stesso policy maker ad abbandonare il campo.

L'esempio più evidente è la distribuzione elettrica, su cui il Parlamento ha varato una proroga ventennale senza neppure discutere sulla sua opportunità e vantaggi per il cittadino. Di segno analogo il sollievo con cui la premier Meloni in settembre annunciava di aver trovato la soluzione per prorogare le concessioni balneari o il ministro Pichetto che spiegava di confidare nella presenza di Fitto a Bruxelles per fare lo stesso con l'idro.

Si delinea insomma una nuova temperie politica che, da un lato puntando il dito sui fallimenti degli ultimi anni, dall'altro opportunisticamente strizzando l'occhio alle idee di Mario Draghi sui campioni europei e alle flessibilità concesse dalla UE negli ultimi anni di emergenze, tende ad archiviare le gare come un capitolo chiuso.

Paiono inserirsi in questo clima anche gli ultimi sviluppi nella distribuzione gas. Previsto dal 2000 e varato nel 2011, il sistema di gare per ATEM non è mai decollato; nonostante questo le autorità competenti sono rimaste alla finestra: poche idee e ancor meno determinazione a intervenire da parte del MASE per sbloccarle, solo qualche azione non risolutiva da parte di ARERA. 

Nel frattempo proseguiva una dinamica che, nel suo funzionamento e nelle sue conseguenze, non era difficile leggere già otto anni fa, nel 2017, ai tempi di due grandi (all'epoca) operazioni societarie nel settore: la razionalizzazione che doveva passare per le gare, stava avvenendo invece a colpi di acquisizioni, modificando a monte gli equilibri delle gare prima che si svolgessero. 

Da qui all'integrazione tra primo e secondo operatore, che le gare rischia di renderle irrilevanti creando un soggetto incomparabilmente più forte di qualunque altro, non mancava che un passo. Non a caso in febbraio, in un intervento sulla Staffetta Quotidiana sull'acquisizione, Carlo Stagnaro di Ibl notava che l'Antitrust non avrebbe potuto evitare di imporre paletti severi senza sconfessare sé stessa. 
Il via libera alla fine è arrivato e i paletti non paiono poi così severi. Viene da domandarsi se 15 anni fa, in una diversa temperie, il Garante avrebbe deciso allo stesso modo, o se il MASE, dai cui uffici sono pure usciti il Dlgs 164/00 e i decreti ambiti, non avrebbe mostrato almeno un po' di interesse, o l'ARERA più sensibilità agli equilibri dimensionali. Davvero l'Italia non è più un paese per gare?