Con l’appena conclusasi COP29 a Baku, il mondo ha guardato nuovamente al summit che annualmente può segnare una svolta nelle politiche climatiche globali. Tra i risultati raggiunti, in sintesi, le nazioni sviluppate hanno concordato di canalizzare almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 verso i paesi in via di sviluppo per affrontare il cambiamento climatico; questo quello che è stato denominato New Collective Quantified Goal (NCQG). Tuttavia, il risultato ha deluso profondamente i paesi in via di sviluppo, che avevano richiesto 1.300 miliardi di dollari all’anno. È stato però approvato un obiettivo meno vincolante di raccogliere 1.300 miliardi di dollari all’anno da fonti varie, inclusi investimenti privati.
Paesi come India e Nigeria hanno accusato la presidenza della COP29 di aver imposto l’accordo senza il loro consenso, dopo negoziati caotici all’ultimo minuto. Non si è raggiunto un accordo su come portare avanti i risultati del “global stocktake” dello scorso anno, incluso il passaggio dai combustibili fossili, rimandando la decisione al COP30 in Brasile. Un punto positivo è stato il completamento delle sezioni rimanenti dell’Articolo 6 sui mercati del carbonio, segnando la finalizzazione dell'Accordo di Parigi a quasi 10 anni dalla sua firma. La finalizzazione del "rulebook" dell'Articolo 6 fornisce chiarezza sui requisiti di rendicontazione e i processi di autorizzazione e architettura dei registri. Questo traguardo consente a paesi ed entità private di operare con maggiore fiducia nei meccanismi di mercato del carbonio internazionali. Il summit è stato tuttavia oscurato dalla rielezione di Donald Trump che ha promesso di ritirare nuovamente gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, così come da accuse contro la presidenza azera, imputata di conflitto di interessi e cattiva gestione data la dipendenza del paese dai combustibili fossili per due terzi delle entrate governative.
La conferenza COP29 ha dunque offerto un’occasione importante per sviluppare ulteriormente l'Articolo 6 dell'Accordo di Parigi. Questo articolo mira a facilitare la cooperazione internazionale tramite carbon market che permettano ai Paesi di scambiare crediti di emissione, aiutandoli a ridurre i GHG in modo più efficace dal punto di vista economico. Tuttavia, Trump ha in passato mostrato avversione a meccanismi multilaterali che potrebbero comportare costi o vincoli per le aziende statunitensi. Il nuovo Presidente eletto potrebbe preferire mantenere l'autonomia del mercato nazionale, evitando regolamentazioni internazionali che, a suo avviso, penalizzerebbero la competitività delle industrie statunitensi o rischierebbero di incentivare il trasferimento di emissioni all'estero (cosiddetto carbon leakage).
The Donald, già durante il suo primo mandato, aveva fatto uscire gli USA dagli accordi di Parigi del 2015. Il successivo rientro negli accordi sotto l’amministrazione Biden ha rappresentato un segnale forte, rilanciando il ruolo degli Stati Uniti nella diplomazia climatica globale. Una nuova presidenza Trump potrebbe ribaltare questo progresso, preferendo un approccio più isolazionista e focalizzato sugli interessi nazionali. Infatti ora pare che, come un déjà vu, un nuovo decreto presidenziale di uscita sia pronto per la firma, prevista all’insediamento alla Casa Bianca del 20 gennaio prossimo.
Relativamente al New Collective Quantified Goal, quest’ultimo andrà a sostituire l’attuale target di 100 miliardi di dollari di finanziamento climatico per i Paesi in via di sviluppo. Sotto l’amministrazione Biden, gli Stati Uniti hanno cercato di aumentare il loro contributo, riconoscendo la necessità di investire in resilienza climatica e sostenibilità a livello globale. Tuttavia, Trump ha storicamente adottato una linea più rigida, ritenendo che gli Stati Uniti non debbano sostenere in modo sproporzionato i costi del cambiamento climatico per altri Paesi.
In passato, Trump ha bloccato i contributi americani al Green Climate Fund (GCF), sostenendo che tali finanziamenti fossero un onere ingiusto per i contribuenti statunitensi e avvantaggiassero paesi concorrenti, come la Cina. Dopo la sua rielezione, potrebbe ridurre ulteriormente il contributo statunitense al NCQG, opponendosi a impegni finanziari sostanziali per i Paesi in via di sviluppo e minando così il progresso su questo fronte di COP29. Senza un impegno solido da parte degli Stati Uniti, il nuovo obiettivo finanziario potrebbe risultare indebolito, creando difficoltà per le nazioni più vulnerabili nell’affrontare le sfide legate ai cambiamenti climatici.
Un altro aspetto chiave sarà la compatibilità tra le politiche nazionali degli Stati Uniti e gli obiettivi internazionali di COP29. Durante il suo precedente mandato, Trump ha promosso attivamente il settore dei combustibili fossili, sostenendo che esso fosse cruciale per la sicurezza energetica e l’economia americana. Le sue politiche si sono concentrate sull’espansione della produzione di petrolio e gas e sulla riduzione delle normative ambientali, in contrasto con l'attuale tendenza globale a favore delle energie rinnovabili e della riduzione delle emissioni. Celebre è la frase di Trump risalente a maggio 2023, e da lui pronunciata più volte durante la campagna elettorale 2024: “We are going to…drill, baby, drill” [Trivelleremo, baby, trivelleremo], promettendo di tagliare i costi energetici a metà entro i primi 12 mesi in carica.
Con il ritorno di Trump, è probabile quindi che gli Stati Uniti possano opporsi a eventuali impegni delle future COP per eliminare gradualmente i sussidi ai combustibili fossili. Questa posizione potrebbe mettere a rischio l’efficacia degli impegni di decarbonizzazione globale, se gli Stati Uniti (uno dei maggiori produttori di emissioni al mondo) non saranno disposti a ridurre il loro sostegno ai combustibili fossili o a investire nel passaggio alle energie pulite.
Per tutta la durata della campagna elettorale di Trump abbiamo visto una nuova presenza che, in alcuni momenti, ha giocato un ruolo da protagonista ancora più di the Donald. Il miliardario Elon Musk è sempre stato molto ‘vocal’, come direbbero gli americani, relativamente al suo sostegno a Trump; oltre ad aver riempito per bene le casse della campagna elettorale stessa. Lo scorso 13 novembre, Musk è stato nominato a capo del Dipartimento per l’Efficienza Governativa (DOGE), che si occuperà di efficientare la spesa pubblica americana. Due giorni prima di questa nomina, Musk aveva già incontrato a New York l’ambasciatore iraniano all’ONU in un meeting che, secondo il NY Times, due funzionari iraniani hanno descritto come una discussione su come disinnescare le tensioni tra Iran e USA. È chiaro quindi che questa nuova ‘wild card’, fatta sì di showmanship (come Trump) ma anche di interessi e soprattutto investimenti trasversali, giocherà un ruolo importantissimo per il nuovo governo. I maligni direbbero che per Musk una posizione di governo così rilevante è come un parco giochi. Resta quindi da vedere se la ‘manina’ del miliardario andrà a far collidere i propri interessi con quelli di agenzie governative come, ad esempio, la FDA (Neuralink) o la NASA (Starlink e SpaceX). Ricordiamoci, però, che Elon Musk è anche il patron di Tesla e Solar City. Se la natura della prima azienda è nota ai più (fornitore di energia e di pannelli solari), quello che forse non è noto al grande pubblico è che tra le fonti di reddito di Tesla non vi è solamente la vendita di automobili, bensì anche quella della vendita di crediti ambientali. In estrema sintesi: questi crediti sono denominati ZEV (Zero-Emission Veichle) e sono regolamentati da un framework normativo che obbliga le case automobilistiche a raggiungere determinati obiettivi annuali di vendita di veicoli a zero emissioni. Chi produce motori a combustione può raggiungere tale target comprando i crediti da chi li genera, come Tesla. Questo è applicato su scala nazionale ed internazionale, secondo principi diversi ma simili. Solo nel terzo trimestre 2024, Tesla ha dichiarato che circa il 34% dell’utile di periodo è stato generato dalla vendita di tali crediti.
Non è quindi improbabile che Musk si farà sostenitore del mantenimento e potenziamento di tali framework normativi, esercitando quindi una notevole influenza sul Presidente relativamente alle tematiche di sostenibilità ambientale. Una spinta al loro potenziamento, alla loro regolamentazione e alla loro salvaguardia dal punto di vista normativo potrebbe essere la variabile decisiva che mancava al precedente governo Trump. Chi vivrà, vedrà.