Siamo giunti al tanto atteso voto europeo. Dal 6 al 9 giugno circa 360 milioni di persone potranno recarsi alle urne per rinnovare il Parlamento europeo e i suoi 720 europarlamentari. Elettrici e elettori voteranno per i partiti nazionali, il quali all’interno del Parlamento europeo possono aderire ai sette gruppi politici attualmente esistenti, dove siedono eurodeputati con la stessa visione politica. Ad esempio, Fratelli d’Italia è nel gruppo dei Conservatori e Riformisti (ECR) insieme ad alcuni partiti legati alla destra più estrema come Diritto e Giustizia polacco, Vox spagnolo, e NVA fiammingo (New Flemish Alliance). Oppure, il Partito Democratico siede nel gruppo dei Socialisti e Democratici (S&D) insieme, tra gli altri, ai socialisti spagnoli di Pedro Sanchez (PSOE) e l’SPD tedesca. Il gruppo di appartenenza è molto importante, poiché in più dell’80% dei casi i partiti nazionali tendono a votare compatti con il loro gruppo politico europeo. Vi sono eccezioni, come il Movimento 5 Stelle, che al momento non è iscritto a nessun gruppo politico europeo ma che potrebbe aderirvi dopo le elezioni.

La campagna elettorale italiana ha dato poco spazio ai temi chiave legati al futuro dell’Europa e alle sfide delle future istituzioni comunitarie.  Il contesto è molto diverso rispetto alle passate elezioni. Nel 2019 assistevamo alle vaste proteste dei giovani per il clima, in uno scenario internazionale relativamente stabile, in cui l’Europa si avviava ad essere leader negli investimenti in sostenibilità. Ora, in soli pochi anni, il mondo è fortemente cambiato. La competizione di Cina e Stati Uniti, con i loro massicci piani d’investimento, si è fatta sempre più pressante. L’Europa stenta a trovare spazi di manovra per competere da protagonista nell’innovazione e nella transizione energetica. Le guerre ai confini dell’Europa, inoltre, minacciano la stabilità del continente, in un contesto di aumento delle diseguaglianze sociali, come testimoniano i recenti dati ISTAT sulla povertà assoluta.

In questi cinque anni l’Unione europea ha costruito molto, a cominciare proprio dal clima, con il Green Deal, la più grande strategia nella storia dell’UE, capace di unire la variabile ambientale con un piano di investimenti rivolto alle filiere industriali e ai cittadini. Seppur con i suoi difetti, il Green Deal ha il merito di considerare la mitigazione del cambiamento climatico da un punto di vista socioeconomico e di proporre una visione di società che non guarda alla prossima scadenza elettorale, ma ai prossimi 25 anni. Quando è scoppiata la pandemia, dopo le incertezze iniziali, per la prima volta si è riusciti a creare debito comune europeo con il NextGenerationEU, che ha dato vita ai PNRR nazionali come stimolo alla ripresa e, nelle intenzioni originarie, volano per la crescita e la transizione energetica.

Anche in ambito geopolitico, in seguito all’’invasione russa dell’Ucraina, l’UE ha risposto con misure emergenziali capaci di coniugare diplomazia e clima. Con la strategia REPowerEU siamo riusciti a superare la crisi attraverso un mix di soluzioni: risparmi, rinnovabili, efficienza energetica, accumuli e diversificazione delle forniture di idrocarburi. Sebbene ci sia ampio spazio per rendere strutturali i provvedimenti, a cominciare da quelli legati a risparmio ed efficienza, la risposta di Bruxelles ha aiutato a limitare – per quanto possibile - gli impatti della crisi sull’economia. Il prossimo Parlamento e la futura Commissione avranno il compito di definire le sorti del Green Deal. Infatti, tutte le norme approvate in questa legislatura contengono delle clausole di revisione e possono essere quindi modificate. Sarà necessario capire quale direzione strategica l’UE vorrà prendere e, all’interno di questa, quale sarà il ruolo europeo e quello degli Stati nazionali, ossia come questa competenza condivisa dei trattati troverà poi diretta e concreta applicazione nei territori. In gioco, c’è anche il futuro dei fondi europei: nel 2025 iniziano infatti i negoziati per il nuovo bilancio europeo (post 2027), il Multiannual Financial Framework. Con la fine dei PNRR, che nel 2026 raggiungeranno la loro naturale conclusione, la scelta di nuove risorse e di come allocare quelle esistenti spetterà alla politica. Si deciderà il futuro dei Fondi Coesione, la cui applicazione diretta è quella che vediamo nei nostri territori (43 miliardi tra il 2021 e il 2027 sono stati destinati all’Italia per lo sviluppo regionale), si sceglierà quanto spendere per la difesa, per l’innovazione tecnologica e per l’industria. Si capirà, dunque, se l’Europa vorrà proseguire lungo il solco tracciato (e finanziato) fino ad oggi, legando sostenibilità e crescita economica cercando di avere dei vantaggi competitivi sui mercati di riferimento, oppure se si ripenserà da zero la politica industriale, marginalizzando il concetto di sostenibilità e sprecando gran parte degli investimenti degli ultimi cinque anni.

Cosa succederà dopo il voto?  Il Parlamento europeo si può comporre di maggioranze variabili ma tradizionalmente i gruppi politici europei di centro destra, centro e centro sinistra (PPE, Renew e S&D) hanno sempre formato e sostenuto la Commissione. A fine giugno (27 e 28) si riuniranno i 27 Capi di Stato e di Governo nel Consiglio europeo e, sulla base dei risultati delle elezioni e delle preferenze dei governi, proporranno il nome del prossimo/a Presidente della Commissione europea e identificheranno le priorità strategiche dell’Unione per i prossimi cinque anni (l’Agenda Strategica). Il Presidente della Commissione e i suoi Commissari chiederanno nei mesi successivi la fiducia del Parlamento europeo. Il processo si concluderà verso la fine dell’anno, quando sapremo con certezza su cosa si vorrà focalizzare il prossimo esecutivo UE.

Quest’anno, per la prima volta, assistiamo ad una forte crescita dei partiti di destra che, secondo le ultime proiezioni, costituirebbero - se tutti uniti - il secondo gruppo politico del Parlamento europeo. Tuttavia, avendo questi posizioni politiche diverse tra loro su molti temi, non sembra scontato ribaltare la "storica” maggioranza europea escludendo i socialisti. Ad oggi sembra più probabile che i partiti di destra, grazie alla loro crescita, possano ottenere qualche posizione di rilievo nelle istituzioni e giocare un forte ruolo d’opposizione. Nulla però sarà certo fino al 10 giugno, quando si passerà dai sondaggi ai dati. Nel frattempo, dalla nostra analisi sui programmi dei partiti italiani e dei loro corrispettivi gruppi politici europei su clima e energia, notiamo che ci sono parecchie differenze, a cominciare dal futuro del mix energetico europeo.  Vi è una netta differenza tra i partiti che vorrebbero rafforzare il Green Deal (centro sinistra) e quelli che vorrebbero rivederlo (centro destra), rimettendo completamente in discussione quanto approvato negli ultimi cinque anni. Più sfumata la posizione dei gruppi politici europei dove il sostegno al Green Deal è trasversale.

In Italia, avremmo sperato di assistere ad un dibattito ricco di contenuti, capace di legare la transizione a temi quali il lavoro, la competitività, la crescita e la giustizia sociale. Andare oltre gli slogan sarebbe quanto mai necessario. Sarà per la prossima volta, nel 2029, ad un passo dal primo checkpoint strategico per raggiungere il Net Zero nel 2050.