Nel sentito comune esiste un inossidabile sillogismo: se il Medio Oriente va in ebollizione, le quotazioni dell’oro nero e dei noli esplodono. Invece, da oltre 100 giorni la Striscia di Gaza è un fuoco scoppiettante, ma il Brent nel corso dell’autunno è andato in discesa e dopo l’attacco di Gran Bretagna e Stati Uniti agli Houthi ha registrato solo un leggero, inevitabile, recupero.

Le cose sono andate un po' diversamente per le tanker, se si guarda ai cosiddetti Baltic Index, giacché ne esistono due. Uno riferito ai noli percepiti dalle cisterne destinate al traffico dirty (il greggio, i combustibili pesanti e quanto derivato dai residui “neri” della lavorazione, ovvero i lubrificanti, il coke e via dicendo). L’altro è invece relativo al tonnellaggio coinvolto nelle spedizioni di clean product (le benzine, il gasolio e le miscele – come la nafta –che sono ricavate dalle frazioni leggere del petrolio e che sono usate come solventi nella chimica di base). Però, entrambi gli Index si portano dietro il fardello insito nella loro natura: fanno d’ogni erba un fascio. Del resto, che altro potrebbero fare, considerato che le tipologie di cisterna siano molte, che le rotte battute moltissime, che nessuna di esse assorbe una quota davvero consistente dell’oil seaborne trade e che in ogni rivolo del traffico il rapporto tra domanda e offerta di tonnellaggio è abbastanza un caso a sé stante.

A ogni modo, i noli sono saliti non tanto perché a Gaza si sono potute contare solo macerie o perché Israele e il Libano sono finiti ai ferri corti o perché gli Houthi hanno iniziato a farla da padrone in Mar Rosso. No, le quotazioni di buona parte delle tanker si sono innalzate principalmente perché di norma negli ultimi mesi dell’anno lievita la domanda di tonnellaggio, sicché – qualora, come è il caso attuale, non vi sia sovrabbondanza di naviglio - il mercato reagisce positivamente. Insomma, il citato sillogismo non ha funzionato. Come mai? Perché i sillogismi sono un tipo di ragionamento la cui conclusione è la conseguenza logica delle premesse. Quindi, stanno in piedi solo qualora gli assunti siano immutati nel tempo. Il che nell’oil business non è vero, sebbene – come è comprensibile – il sentito comune riconduca l’attuale tensione in Mar Rosso alla realtà vissuta quando si verificò la cosiddetta “prima crisi di Suez”: un colpo di maglio inferto nel 1956 da Nasser al sistema economico-politico internazionale.

Infatti, il rais egiziano, quando fu preso in contropiede dal lancio di paracadutisti anglo-francesi sul Canale, deliberò l’affondamento d’alcune navi in quell’infrastruttura, onde renderla impraticabile. Uno stop all’uso d’una via d’acqua vitale che durò mesi e mesi. In pratica, fin quando gli Stati Uniti s’accollarono sia la rinegoziazione dell’equilibrio politico in Medio Oriente, sia il costo tanto della rimozione dei relitti presenti nel Canale, quanto il suo potenziamento. E un “apriti cielo” per il traffico marittimo mondiale, incluso – e in  modo molto marcato - quello petrolifero. Infatti, l’inagibilità di Suez faceva grossomodo balzare a un po’ più di 11.000 nautical miles la distanza a carico dell’oro nero mediorientale portato dal Middle East Gulf all’Europa, mentre in precedenza la percorrenza era circa 4.400 miglia, nel caso del greggio destinato alle raffinerie mediterranee, e circa 6.500 miglia per il crude oil da distillare in Nord Europa. Il che metteva il Vecchio Continente con le spalle al muro, perché da un decennio l’oil business maneggiava il prezzo del barile in modo che Francia, Germania, Italia, ecc. colmassero il crescente fabbisogno petrolifero importando principalmente il greggio imbarcabile nel Middle East Gulf. Una scelta redditizia per le major e per l’Europa, se disponibile il Canale di Suez, ma disastrosa per quest’ultima, qualora l’infrastruttura out of the blue risultava inagibile. Infatti, nel caso estremo la performance delle cisterne veniva dimezzata: pressoché 4,5 round Ras Tanura/Italy all’anno, anziché 9.  Donde, un’andata alle stelle del fabbisogno di tanker e dei noli, sia perché esistevano all’epoca solo 165 le petroliere idonee, in ragione della loro robusta taglia, a battere a prezzo accettabile la via del Capo di Buona Speranza, sia perché la chiusura di Suez metteva in tilt almeno 1/3 del world seaborne oil trade.

Ben diverso è il quadro attuale. Ormai l’epicentro del traffico petrolifero è l’Asia, sicché neppure il 10% del greggio caricato nel Middle East Gulf ha quale destinazione l’Europa o gli Stati Uniti. In più, la stragrande maggioranza di questo crude oil viaggia con destinazione west su cisterne aventi, se cariche, un pescaggio incompatibile con i limiti del Canale. Navi che, oltre tutto, non sempre trovano conveniente transitare dall’Egitto quando si recano nel Middle East Gulf in zavorra. Questo significa che ormai l’oro nero snobba Suez? No, ma il Canale per l’oil business non è più una via d’acqua vitale. Infatti, ormai le tanker che si muovono lungo il Mar Rosso sono o quelle che abitualmente fanno transitare da Suez non più di 7 milioni di barili/giorno o quelle che vanno ad alimentare il Sumed, l’oleodotto che parte dal Golfo di Suez e giunge a Sidi Kerir, presso Alessandria, per lì imbarcare e distribuire in genere in Mediterraneo l’olio minerale – circa 1 m b/g - pompato attraverso di esso. Questa pipeline fa capo all’Egitto, a vari emirati del Golfo e ai sauditi, che peraltro ne sono i principali beneficiari. Eh, sì.

Il Canale, più che una via di transito dell’olio minerale attinto nel Middle East Gulf è oggigiorno un’infrastruttura al servizio dell’export petrolifero saudita che nasce a Yambu al-Bahr: un grande terminal, abbinato a un’imponente raffineria e a un colossale impianto petrolchimico, affacciato in Mar Rosso. In a nutshell, Suez è ormai ben lungi dall’essere la vena giugulare del traffico petrolifero, giacché per quest’ultimo la vera zona incandescente è lo Stretto di Hormuz, la porta d’accesso al Middle East Gulf, la cui chiave è nelle mani di Tehran. Suez resta però fondamentale per taluni trasporti clou. Nell’ambito energetico, per le metaniere che portano in Mediterraneo il gas naturale del Qatar. Inoltre, per le granaglie destinate all’Asia. Infine, per ciò che un tempo si denominava “merce varia”. Ossia, il materiale – includente pure la componentistica per l’industria - che oggigiorno è sistemato in container e viaggia tanto eastbound, quanto westbound per collegare l’Asia con l’Europa oppure con l’America atlantica. Un interscambio che coinvolge quantitativi impressionanti e utilizza navi costosissime.

Ecco perché l’aggressività degli Houthi ha rapidamente messo in allarme i big carriers: i colossi armatoriali che hanno in mano il traffico containerizzato. Per essi il problema non è tanto l’inevitabile innalzamento del nolo a ragione della lievitazione dei premi assicurativi, della percorrenze, ecc. D’altronde, chi  riceve e chi spedisce i container non ha alternativa, specie se – come è ormai la norma – tiene il magazzino all’osso. Può unicamente – se i consumatori finali non accettano il rialzo dei prezzi - ridurre le spedizioni, ma non dalla sera alla mattina. Ecco perché abbastanza rapidamente il nolo d’un container standard da 40’ trasportato dalla Cina al Nord Europa, che a novembre era sui  1.500 doll., adesso ha già oltrepassato i  4.000 e si valuta che possa arrivare anche a 6.000 doll., visto che i container transitanti dal Mar Rosso sono già crollati di quasi il 70%, rispetto alla movimentazione usuale di questo periodo.

Qual è allora per i big carriers il problema generato dalla rischiosità del Mar Rosso? È la necessità di riorganizzare in toto i servizi, poiché l’interscambio mondiale dei container è un sistema delicato quanto un orologio meccanico, sicché va tutto in tilt, se salta una rotella. Come, ad esempio, l’esigenza di introdurre quasi 2 settimane di navigazione aggiuntive nel collegamento tra la Cina e il Nord Mediterraneo. Ecco il punctum dolens: un’escalation in Mar Rosso dei ribelli yemeniti implica terribili conseguenze sul commercio globale e, di riflesso, sull’inflazione. Donde, i raid attuati contro gli Houthi dagli Stati Uniti e dalla coalizione che li affianca. Azioni militari non facili, poiché i Partigiani di Allah dispongono di missili, di droni e di buone e camuffate strutture sia per il lancio, sia per la guida, sia per la custodia degli ordigni. Però, raid cruciali. Infatti, averli iniziati é l’equivalente d’essersi seduti al tavolo d’una partita di banque-à-tout-va. Vale a dire, o chi attacca mostra che, se vuole, può – grazie alle armi e all’intelligence - giungere ai gangli vitali della macchina bellica degli Houthi e farli saltare (dando così anche un warning ben chiaro a Teheran, in merito all’intangibilità dello Stretto di Hormuz) oppure – quantomeno per un po’ – la libertà dei mari cade in un cono d’ombra, con tutto quel che ne può conseguire. E non finisce lì, poiché il buon esito della partita transita anche per la disponibilità sia degli ayatollah, sia degli Houthi (visto che le due leadership non sempre vanno a braccetto) d’applicare quella ch’era una linea guida di Lenin “provi con la baionetta; se trovi debolezza affondi, se incappi nell’acciaio ti ritiri”.