I metalli delle terre rare (REM) occupano senza dubbio un ruolo centrale in una serie di dispositivi tecnologici essenziali la decarbonizzazione. Dai motori elettrici degli EV ai parchi eolici offshore, i REM sono indispensabili per produrre questi sistemi attraverso la fabbricazione e l’utilizzo dei magneti permanenti. Si prevede, quindi, con la progressiva penetrazione e utilizzo dei magneti in questi sub-sistemi (motori e turbine) che la domanda di questi materiali aumenterà di sei volte secondo le più recenti stime dell’International Energy Agency (IEA).

La Cina è il fornitore dominante di REM sul mercato globale, con circa l'85-95% dell'offerta totale dalla fine degli anni '90. Pechino, grazie ad una politica industriale e al supporto dello Stato, ha identificato nelle ‘terre rare’ materiali strategici per perseguire i propri obiettivi tecno-industriali, ma anche per catturare progressivamente maggior valor aggiunto dalla ricchezza del suo sottosuolo, ovvero circa il 32% delle riserve mondiali (una percentuale comunque diminuita nel corso dell’ultimo decennio in seguito alle attività esplorative condotte dall’Occidente per ridurre questa percepita dipendenza). Qualsiasi riflessione su quest’industria, che rimane per scala (la Cina è e rimarrà nel breve-medio periodo il più grande consumatore di REM), know-how e mercato end-use fortemente concentrata in Cina, non può non partire da una riflessione sulle difficoltà di ricostruire una supply chain integrata in Occidente. Attualmente, la Cina estrae circa il 58% dell’offerta globale di concentrati di terre rare dai minerali ospitanti, ma ne raffina e separa in singoli ossidi (REO) circa il 90% per poi essere utilizzati, dopo complesse tecniche di metallizzazione, come input cruciali (parliamo di neodimio, praseodimio, disprosio e terbio utilizzati in leghe metalliche insieme a boro e acciaio) per la fabbricazione dei magneti permanenti. Da un punto di vista prettamente economico, circa il 90% del valore delle terre rare viene realizzato nelle fasi di raffinazione, con margini di profitto che aumentano di molto poco nelle fasi successive. Il 92% della capacità produttiva di magneti – seppur non tutti di elevatissima qualità, che rimane una nicchia di specializzazione delle aziende giapponesi che ne detengono i brevetti originari – è localizzata in Cina (circa 300.000 tonnellate nel 2023) con il grosso delle attività controllate dalle industrie cinesi e una serie di impianti anche di produttori europei e nord-americani.

Il controllo della Cina sulle catene di approvvigionamento di REM ha suscitato la preoccupazione che Pechino possa utilizzare il controllo di queste materie prime critiche per scopi geopolitici. Nel 2010, in seguito ad una disputa territoriale tra Pechino e Tokyo sulla sovranità delle isole Senkaku/Diaoyu e in modalità che rimangono tuttora non chiarissime, la Cina impose un blocco delle esportazioni verso il Giappone, provocando la reazione isterica dei mercati con aumenti esponenziali dei prezzi di alcuni metalli come disprosio e neodimio. Questo ricorso storico è più volte citato dagli addetti ai lavori ed è diventato probabilmente l’evento che ha riportato in auge, in Occidente, una riflessione sulla natura di questa dipendenza e l’avvento degli studi sulla ‘criticità’ delle materie prime. Per quanto concerne l’industria delle REM, e nel contesto di crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina nel comparto dei semiconduttori che hanno spinto quest’ultima a reagire con controlli e licenze sull’export di materiali semiconduttori, come gallio e germanio, e più di recente con la grafite, queste preoccupazioni si sono rivelate esagerate e hanno in qualche modo oscurato quali sono le reali difficoltà nel cosiddetto decoupling. A differenza dei tre materiali citati, come vedremo, nel caso delle terre rare la dipendenza si è ormai consolidata a valle della filiera. Il paradosso è che per recuperare terreno nei segmenti dowstream ad alto contenuto tecnologico – come i magneti – la dipendenza dalla Cina, che controlla il 100% delle forniture di disprosio (cruciale per fabbricare magneti ad alta coercività, in grado di resistere alla de-magnetizzazione in sistemi ad alto potenziale come i motori elettrici) potrebbe a quel punto diventare davvero reale nelle fasi più upstream.

A suonare la campanella d’allarme per molti media, tra cui per primi il Nikkei Asia e il South China Morning Post, l’annuncio del Ministero del Commercio cinese lo scorso 6 novembre con il quale minerali di ferro (ricordiamo che Bayan Obo, il più grande sito estrattivo di terre rare, situato nella Mongolia Interna, è una miniera di minerali di ferro da cui, come sottoprodotto, vengono ricavati i minerali ospitanti le REE), petrolio grezzo, concentrati di rame e fertilizzanti a base di potassio sarebbero stati inclusi in una lista di prodotti soggetti ad un sistema di licenze denominato “Catalogue of Energy Resources Products Subject to Import Reporting”. Per le terre rare  ̶  che già sono inserite in una lista di minerali strategici e quindi trattate direttamente in una normativa separata e indirettamente in un Catalogo di tecnologie utilizzate per l’estrazione e la processazione  ̶  sono incluse nel “Catalogue of Energy Resources Products Subject to Export Reporting”. Secondo la normativa, gli operatori commerciali esteri che importano ed esportano i suddetti prodotti devono adempiere ai relativi obblighi di comunicazione delle informazioni sull'importazione e sull'esportazione, mentre alla Camera di Commercio Cinese per l'Importazione e l'Esportazione di Minerali e Prodotti Chimici è affidata, dal Ministero del Commercio, la responsabilità del quotidiano lavoro di raccolta, selezione, sintesi, analisi e controllo delle informazioni di reporting delle cinque nuove categorie di prodotti sopra citati.

Non è dunque previsto un sistema di licenze per utilizzi dual-use (ricordiamo che le terre rare sono impiegate anche nella fabbricazione di alcuni dispositivi militari) che possano, in qualche modo, impattare gli equilibri commerciali esistenti in Cina e nel resto del mondo. Esiste però– e questo è ben noto – il sistema già consolidato delle quote di produzione (che ha sostituito quello delle esportazioni dopo la crisi del 2010 e l’intervento del WTO nel 2015) e le tariffe applicate sull’esportazione di REM ai produttori cinesi per incentivare la localizzazione dell’offerta, a vantaggio delle industrie tecnologiche cinesi (magneti) e a svantaggio di un’eventuale offerta estera che dovrebbe pareggiare, perlomeno, i prezzi cinesi. Questo sistema è attualmente molto più pervasivo di qualsiasi nuova regolamentazione dell’industria e rappresenta il vero nodo con il quale gli Stati Uniti e l’Unione Europea devono confrontarsi per poter sperare di far emergere, nei rispettivi mercati, un’industria maggiormente integrata, dalle miniere ai magneti.

Uno dei possibili perni è, appunto, la scommessa di barattare prezzi “premium” rispetto alla sicurezza degli approvvigionamenti per i clienti finali, oltre alla possibile (ma tutta da dimostrare) sostenibilità delle attività produttive. Rimane tuttavia difficile comprendere come gli Original Equipment Manufacturers (OEMs) europei o americani (principalmente, i grandi colossi automotive) possano escludere a priori quest’opzione, considerando che il consumo medio di terre rare per veicolo elettrico (EV) rimane molto limitato rispetto ai battery materials come grafite, manganese, litio e nichel. Un’ipotesi potrebbe essere il vantaggio di partecipare alle catene globali del valore: le terre rare sono soggette, come altre commodity, alle politiche della Cina che mirano a creare un'abbondante offerta di materie prime, disponibili per le industrie nazionali a valle al costo più basso del mondo. Dunque, la possibilità di rifornirsi dalla Cina su prodotti tecnologici più competitivi, come i magneti, rimane la prima scelta.

Infine, è essenziale scendere nei dettagli una volta chiaro il contesto della supply chain e delle politiche in vigore in Cina per l’industria delle terre rare. In primo luogo, l’export di REM dalla Cina è sostanzialmente proibito, mentre quello per gli REO è disincentivato. Il grosso delle esportazioni di concentrati di terre rare in Cina (in volumi) è costituito da elementi di scarso valore, come lantanio e cerio che sono utilizzati nell’industria dei lubrificanti e in quella petrolchimica. Dunque, qualsiasi restrizioni all’export di questi elementi sarebbe del tutto ininfluente e non avrebbe particolari effetti. In secondo luogo, e come anticipato, la vera dipendenza dell’Occidente è già sui prodotti tecnologici downstream: nel 2022, circa il 45% delle esportazioni cinesi di magneti permanenti era diretto verso l’UE, il 13,5% negli Stati Uniti e il 13% in Corea del Sud Corea. In terzo luogo, l’espansione del mercato domestico cinese – con la progressiva penetrazione di EV e l’installazione di turbine eoliche – rappresenterà un elemento che potrà cambiare gli equilibri, dal momento che nell’ultimo decennio Pechino ha deciso di affrontare un altro fattore: quello della sostenibilità ambientale dell’industria delle terre rare. Per far convergere questi due elementi, la Cina aumenterà la quota delle importazioni di concentrati estratti all’estero, confermando un trend decennale: nel 2010, lo share minerario cinese era del 90%, oggi siamo come detto a circa al 58%. Solo nella prima metà del 2023, le importazioni cinesi sono aumentate del 68%. Dunque, la Cina da monopolista della produzione upstream si appresta a diventare un competitor per gli asset minerari internazionali dovendo preoccuparsi principalmente di difendere la sua leadership tecnologica e commerciale nei settori a valle. Questo sarà uno sviluppo con evidenti implicazioni per il successo della corsa agli approvvigionamenti alternativi alla Cina.

In conclusione, in un contesto di crescente competizione geopolitica e di riflesso di weaponization di asset strategici come chip e materie prime critiche, rimane essenziale monitorare questi sviluppi con uno sguardo a tutta la filiera, dal momento che le interdipendenze sono molteplici e impattato mercati e Paesi a seconda della loro reale esposizione industriale. Le implicazioni di queste restrizioni sono dunque minime per l’UE, che deve piuttosto preoccuparsi di creare economie di scala a supporto di quest’industria, in linea con gli sviluppi di un mercato end-use (EV, eolico) soggetto a numerose difficoltà.