Cinquant’anni passati invano? Nell’illusione di poter allontanare i rischi di nuove guerre e di invertire il clima di odio che dominava e domina purtroppo ancora oggi vaste aree del mondo? Sono due delle domande che suscitano le analisi e i commenti che si rincorrono ogni giorno sulla stampa, alla radio e alla televisione. Al di là della coincidenza niente affatto fortuita delle date, è difficile trovare paralleli tra le cause dei due accadimenti di cui ci stiamo occupando. Quello dell’aggressione, terroristica dei palestinesi della Striscia di Gaza a Israele il 7 ottobre scorso e quello del 6 ottobre del 1973, il giorno dello Yom Kippur, sacro in Israele al raccoglimento e alla penitenza, quando gli eserciti egiziani, siriani e iracheni attaccarono l’esercito israeliano. Salvo la cornice storica dei rapporti tra arabi e israeliani che in 50 anni non sono riusciti a trovare un’accettabile soluzione se non, da quanto purtroppo emerge, in senso peggiorativo.

Quanto all’altro contesto, quello dell’energia e del petrolio, che aveva avuto uno dei suoi culmini proprio nella crisi del Kippur, questa volta sembra passato in secondo piano. Allora era stato catalizzatore dei fermenti che erano andati lievitando in quegli anni tra i grandi paesi produttori e consumatori di energia, Italia inclusa. Generando panico e un clima di emergenza, che chi scrive era stato in grado di cogliere a Londra venti giorni prima, nel settembre 1973 in una conferenza del Financial Times che aveva radunato 500 esperti provenienti da tutto il mondo.

Gli elementi di giudizio per essere preoccupati c’erano tutti, tra cui la necessità urgente di trovare linee di condotta comune e, se possibile, valide per tutto il mondo industrializzato, onde evitare che, tempo 10 anni, lo sviluppo economico, subisse un collasso a causa della mancanza di energia. Un’urgenza data anche dal fatto che la situazione appariva drasticamente peggiorata. Perché la domanda di energia continuava a salire in misura vertiginosa nel mondo industrializzato e negli Usa in particolare, e perché il petrolio non era più disponibile in abbondanza. Vere e proprie “campane a martello”, come titolava un servizio del 24Ore.

Una situazione che il 18 novembre 1974 aveva portato alla nascita a Parigi dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE). Che verrà messa alla prova nel febbraio 2022 con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e la necessità di trovare forniture alternative di gas, prima in Algeria e poi in altri paesi e con l’impiego di nuovi rigassificatori di GNL.

Di fatto creata come baluardo per fronteggiare le emergenze negli approvvigionamenti di energia, petrolio e gas naturale in primis, l’AIE negli ultimi anni si sta impegnando a non averne più bisogno. Ammesso e non concesso che si riesca a raggiungere questo traguardo in tempi brevi. Sfidando gli sforzi in corso per accelerare la cosiddetta transizione verso nuovi sistemi energetici, che prevederebbero tra l’altro un mondo “senza guerre e senza frontiere”. Un vero e proprio miraggio. Contestuale al cambio di pelle assunto dall’AIE a partire dal 2021. Sulla scia dell’accordo di Parigi del 2015 firmato da 195 paesi sotto l’egida dell’Onu che fissava impegni molto stringenti in tema di emissioni. Premessa di una transizione verso un mondo più sostenibile in cui dovrebbe esserci via via meno spazio all’impiego di fonti fossili.

Una strategia che accanto alla necessità di rispettare il mandato di promuovere un’offerta di energia sicura, disponibile ed efficiente, mette l’accento sulla necessità di sviluppare fonti di energia rinnovabili e pulite, inclusa l’energia nucleare, di tecnologie a basso contenuto carbonico e di nuovi sistemi di produzione e distribuzione di elettricità. Il tutto nel quadro di uno sviluppo dove l’efficienza energetica dovrebbe diventare il primo combustibile (“first fuel”). Tenendo conto sia delle sfide che delle opportunità legate alla globalizzazione del gas naturale e del ruolo crescente delle economie emergenti e in vista della Cop 26 di Glasgow.

Un cambio di pelle confermato da un articolo del direttore esecutivo Fatih Birol apparso il 14 aprile scorso sul Financial Times che ha come titolo “Clean energy is moving faster than you think” in cui nota che la crisi energetica innescata dalla guerra in Ucraina ha scosso il mondo dall’inerzia sul passaggio alle fonti rinnovabili, che il picco della domanda dei combustibili fossili è ormai alle porte e che l’energia verde sta avanzando più rapidamente di quanto si immagini. Addirittura prima del 2030. Scenari che non sono, invece, in sintonia con paesi, tra cui i membri dell’Opec, che invece puntano ancora sulle vecchie fonti. E che non condividono neppure la leggerissima correzione dello stop a nuovi investimenti in fonti fossili contenuto nel nuovo rapporto Net Zero pubblicato il 26 settembre dall’AIE, e aggiornato rispetto al primo rapporto del 2021. Non sono, infatti, previsti nuovi progetti di produzione di petrolio e gas a lungo termine, nuove miniere di carbone o ampliamento delle stesse. Tutto questo ovviamente a condizione che si riesca a ridurne la domanda grazie all’aumento degli investimenti nelle energie pulite. In particolare carburanti a basse emissioni.

E qui si viene al nocciolo delle minori diponibilità di entrate per molti paesi produttori di fonti fossili e dei rischi di tensioni finanziarie tra i paesi importatori che ciò comporterebbe. Con il suggerimento di puntare su una “transizione equa” che tenga conto delle diverse circostanze nazionali. Ad esempio, le economie avanzate dovrebbero cercare di anticipare il raggiungimento del “net zero” per concedere più tempo alle economie emergenti e in via di sviluppo. Che comporta tra l’altro scenari di pace non certo di guerra come quelli con cui il mondo oggi si sta confrontando.

Tornando alle domande iniziali di questa breve nota e agli sviluppi in corso, la conclusione è quella di trovarci di fronte ad una situazione di grande incertezza sul piano della sicurezza energetica. Con fattori di rischio molto elevati. Tutto il contrario del clima necessario per favorire nuovi investimenti in grado tra l’altro di non far aumentare il prezzo dell’energia e la povertà energetica e di favorire invece lo sviluppo economico. Il guaio è che stando così le cose la matassa dell’energia si ingarbuglia sempre di più e non si vede come sbrogliarla.

Tutti elementi che avevamo dati per scontato nei lunghi decenni di pace in Europa e di sviluppo della globalizzazione. E che tornano, invece, estremamente incerti nell’attuale scenario di frammentazione globale. Con una matassa dell’energia che si ingarbuglia sempre di più.