Mentre i prezzi del petrolio parevano ormai tendere ai 100 dollari al barile, per poi ripiegare verso gli 85, per i timori di recessione con conseguente caduta della sua domanda, con le cancellerie che si interrogavano sull’impatto che ne sarebbe potuto derivare sull’inflazione e di qui sui tassi di interesse e sulla crescita delle economie, l’Agenzia di Parigi (AIE) ha rassicurato che non vi sarebbe stato comunque nulla di cui preoccuparsi. Perché, a suo dire, siamo infatti semplicemente di fronte all’agognato ‘Canto del Cigno’ del petrolio, fonte oggi dominante nella mappa energetica mondiale, ma destinata nell’arco di breve tempo ad uscirne.

 Nella sua ultima ‘Net Zero Roadmap’ al 2050 l’Agenzia conferma il messaggio scritto nella versione originale del 2021, ovvero che non vi sia alcuna necessità di investire “no new fossil fuel investment beyond that already approved”. Basta e avanza quel che sinora si è realizzato. A suo dire, la transizione energetica sta infatti marciando che è una meraviglia, sorvolando artatamente sulla crisi dell’eolico, per il forte aumento dei costi che ha causato il clamoroso flop delle aste inglesi in nuova potenza, sul rischio che le imprese europee che operano nel fotovoltaico spariscano a causa della malsana concorrenza esercitata dalle concorrenti cinesi.

 Dalla padella del gas russo l’Unione si va cacciando nelle braci delle rinnovabili cinesi. La prospettiva secondo Parigi è di un crollo della produzione e domanda di gas naturale dagli attuali 4.150 miliardi di metri cubi a 3.400 nel 2030 e 920 nel 2050, a un livello quindi pari a un quinto di quello attuale. Se le cose stanno così non si comprende la corsa a concludere nuovi contratti di importazione del gas a 20-30 anni o a realizzare nuovi rigassificatori per importare GNL specie dall’America. Non miglior sorte per il petrolio la cui domanda dovrebbe crollare dagli oltre 100 mil.bbl/g previsti dall’Agenzia alla fine di quest’anno a 77 nel 2030 e 24 nel 2050.

 Il fatto che la domanda di petrolio si vada oggi dimostrando particolarmente resiliente alla bassa crescita economica, specie cinese, essendo anzi una delle cause alla base della crescita dei prezzi, per Parigi non significa un bel nulla, preferendo guardare ai prossimi decenni quando non si potrà recriminare sulle attuali errate profezie. L’immarcescibile Fatih Birol ha ammesso, bontà sua, che l’obiettivo ‘net zero’ è un ‘herculean task’, un obiettivo eroico, aggiungendo però che per quanto ambizioso potrà assolutamente essere raggiunto. Confidando, prosegue, sulla dirompente forza delle rinnovabili la cui potenza – sempre a leggere il libro dei sogni dell’Agenzia – dovrebbe crescere dagli attuali 3.600 GW a 11.000 GW nel 2030 e oltre 30.000 GW nel 2050, con un aumento di oltre 8 volte. Una proiezione che prescinde totalmente dal fatto che la domanda e generazione elettrica – cui le rinnovabili sono totalmente destinate – sta calando, specie dove la potenza rinnovabile dovrebbe maggiormente crescere.

 In Europa, la più green del reame, si stima nel 2023 una caduta della domanda elettrica del 3% così come accaduto nel 2022. La maggior contrazione mai osservata nei 27 paesi europei. Bassa domanda e maggior offerta vanno causando un oversupply di rinnovabili elettriche – che vengono prodotte non quando c’è domanda ma quando c’è sole e vento – con i produttori costretti a cederle a prezzi negativi non riuscendo a collocarle altrimenti. Secondo il recente Electricity Market Report dell’AIE, in diversi paesi europei, ma specie in Germania e Olanda, nella prima metà del 2023 rispetto alla prima metà del 2022 è raddoppiato  il numero di ore in cui l’elettricità è stata venduta a prezzi negativi. A dispetto dei fans delle rinnovabili, le cose per loro vanno male.

 L’S&P Global Clean Energy Index che riflette l’andamento delle 100 maggiori imprese rinnovabili è crollato del 20% negli scorsi due mesi, mentre quello delle fossili è aumentato del 6%. È allora opportuno rammentare che dal 2005 ad oggi secondo JP Morgan si sono spese nelle rinnovabili 6.300 miliardi di dollari, a fronte di un loro apporto alla domanda di energia mondiale che è rimasto sempre sotto il 10%, mentre le fonti fossili contano ancora per oltre l’80% esattamente come 40 anni fa. A questo tasso di sostituzione necessitano secoli e non decenni per sostituire le fossili, diversamente da quello che Parigi sostiene artatamente.

 Ritengo che le sue affermazioni sulla non necessità di ulteriori investimenti nell’Oil&Gas siano semplicemente scellerate, perché se le cose non andranno malauguratamente così non vi sarà modo per provvedervi. I prezzi del petrolio e a cascata delle altre fonti semplicemente schizzeranno verso l’alto a livelli inauditi a spese dei paesi e delle popolazioni più povere. Parigi non sembra rendersi conto che la sicurezza energetica dopo la guerra ucraina è divenuta – come fu negli anni Settanta – la prima preoccupazione nell’agenda politica dei governi. Senza sicurezza energetica, come ha scritto Daniel Yergin nell’ultimo numero di Energia, sarà difficile se non impossibile per i fautori della transizione energetica “garantirsi il sostegno pubblico ed evitare gravi dislocazioni economiche, con le pericolose conseguenze politiche che possono derivarne”.

 Passi che l’Agenzia raggruppa i paesi avanzati, ma il crollo di quelli poveri ricadrebbe su di loro causando non minori rovine. La transizione energetica rischia di aprire un nuovo divario Nord-Sud del mondo che riflette il disaccordo sulle politiche climatiche, sul loro impatto sullo sviluppo – non volendo i paesi poveri rinunciarvi non avendo alcuna responsabilità nell’aver causato il surriscaldamento del Pianeta – su chi abbia causato le nuove e cumulative emissioni, su chi ne paga i costi più elevati. Se non si esce dalla narrazione dominante sulle politiche climatiche, dicendo banalmente le ‘cose come stanno’ senza illusioni, fughe in avanti, falsificazione dei dati, non si migliorerà di un pollice la salute del pianeta che anzi ne soffrirà perché è la povertà e non la ricchezza all’origine dei disastri ambientali.