Sono molti gli interessi in gioco e, allo stesso tempo, i nodi della relazione tra Iraq e Turchia, che si giocano sul piano economico-commerciale, securitario, infrastrutturale, energetico e idrico. Oltre ai due storici fiumi Tigri ed Eufrate, la cui gestione da parte turca (e non solo) sta causando a Baghdad numerosi problemi di scarsità idrica, Iraq e Turchia condividono un confine di più di 350 km. Si tratta di una frontiera dal valore strategico per l’Iraq in quanto rappresenta l’unico vero sbocco per il Paese – e per le sue risorse – verso il continente europeo.
Il fatto che a confinare con la Turchia sia più precisamente il territorio sotto controllo del Governo Regionale del Kurdistan (KRG) aggiunge un’ulteriore variabile alla già di per sé complessa relazione bilaterale tra Ankara e Baghdad, mettendo sul piatto anche le tensioni derivanti dagli intricati rapporti tra Governo Federale Iracheno (GOI) e KRG, in particolare in merito alle spinte indipendentiste di quest’ultimo e alle sue ambizioni di gestione autonoma delle risorse petrolifere.
Ed è proprio su questo punto che si inseriscono gli ultimi sviluppi di fatto trilaterali tra Ankara, Baghdad ed Erbil, con implicazioni sui mercati petroliferi globali al di là di questo triangolo. E’ infatti ancora inattivo dallo scorso 25 marzo per iniziativa di Ankara l’oleodotto Kirkuk-Ceyhan, che prima dell’interruzione trasportava verso la Turchia circa 400.000 barili di greggio al giorno da giacimenti controllati da Erbil – corrispondenti a 10% delle esportazioni petrolifere irachene e allo 0.5% della produzione globale – e 75.000 barili provenienti, invece, da giacimenti controllati da Baghdad.
Percorso dell’oleodotto Kirkuk-Ceyhan
Fonte: Amwaj media
La motivazione di questo blocco è precisamente da trovarsi nella complessa relazione tripartita tra GOI, Turchia e KRG: nel marzo 2023, Baghdad ha vinto una causa legale mossa contro Ankara nel lontano 2014, quando il KRG aveva iniziato a esportare greggio verso la Turchia utilizzando l’oleodotto Kirkuk-Ceyhan (cui nel 2013 sono stati collegati dal KRG tre dei più grandi giacimenti petroliferi del Kurdistan iracheno), bypassando il GOI e la compagnia petrolifera nazionale, la State Oil Marketing Organization (SOMO). Un’iniziativa, questa, di cui Baghdad a suo tempo ha chiesto conto anche a Erbil, interrompendo l’allocazione del budget federale al KRG e scatenando una crisi i cui strascichi permangono ancora oggi.
A distanza di nove anni dalla presentazione della causa, a marzo 2023, la Corte internazionale di arbitrato della Camera di commercio internazionale (ICC) ha deliberato a favore di Baghdad, certificando la violazione turca di un accordo turco-iracheno sul transito petrolifero firmato nel 1973 e richiedendo quindi ad Ankara il pagamento di 1,4 miliardi di dollari di risarcimento relativo al periodo tra il 2014 e il 2018. Due giorni dopo l’annuncio della sentenza, la Turchia ha interrotto le proprie importazioni di petrolio attraverso l’oleodotto Kirkuk-Ceyhan, con conseguenze per il KRG, l’Iraq, gli equilibri intra-iracheni e i mercati petroliferi.
Dal punto di vista curdo-iracheno, le perdite del blocco sono state stimate dallo stesso KRG a fine agosto a circa 5 miliardi di dollari (oltre a notevoli, ma ovviamente non paragonabili, perdite anche per il GOI): si tratta di un impatto notevole per una regione i cui introiti delle esportazioni petrolifere rappresentano circa l’80% del bilancio regionale, e sono dunque, ad oggi, alla base del funzionamento dello stesso governo e dell’economia locale.
Dal punto di vista delle dinamiche interne all’Iraq, lo stallo delle esportazioni ha rappresentato una spinta per cercare di superare l’annosa disputa intra-irachena sulla gestione delle risorse petrolifere, che costituisce uno dei grossi nodi delle relazioni tra Baghdad ed Erbil. In questo quadro, concordi del grosso danno del blocco per il Paese, a soli pochi giorni dalla decisione turca, Baghdad ed Erbil hanno raggiunto un accordo temporaneo finalizzato a riprendere le esportazioni verso la Turchia. Ciò ha messo in luce anche l’urgenza di definire una legge nazionale sugli idrocarburi – una delle grandi priorità del governo del premier iracheno Mohammad Shia’ al-Sudani, in carica da ottobre 2021 – che possa finalmente chiarire in modo dettagliato il funzionamento del sistema e i rapporti tra KRG e GOI in un settore di fondamentale importanza per un Paese come l’Iraq.
Dal punto di vista internazionale, la decisione turca di bloccare le esportazioni ha contribuito a un aumento del prezzo del Brent, che dai 75 dollari al barile del giorno prima del blocco dell’oleodotto ha raggiunto gli 80 dollari a fine marzo; non dimentichiamo, infatti, che l’Iraq è il secondo Paese produttore in seno all’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC). A fronte della recente decisione di Russia ed Arabia Saudita di tagliare la produzione di petrolio, e del conseguente aumento dei prezzi, la prolungata interruzione delle esportazioni curde è dunque un ulteriore fattore che sta pesando sul mercato.
Nonostante i numerosi incontri tra Ankara e Baghdad svoltisi nel corso degli ultimi mesi, non si è giunti ad oggi ad una svolta concreta, sebbene varie fonti rimandino a ottobre come possibile data di ripresa dei flussi. Guardando alla Turchia, tra le motivazioni assunte per il prolungato stallo hanno figurato le conseguenze del devastante terremoto dello scorso febbraio, che hanno determinato la necessità di controlli sullo status dell’oleodotto (colpito peraltro da una perdita a marzo), che dovrebbero però a oggi essersi concluse. Allo stesso tempo, le elezioni in Turchia dello scorso maggio hanno portato Ankara a derubricare l’argomento in fase di campagna elettorale per evitare una sua eventuale strumentalizzazione a fini elettorali. Infine, tra le motivazioni della reticenza turca è stata spesso citata anche la volontà di negoziare rispetto ad un secondo arbitrato indetto da Baghdad contro Ankara riguardo alle importazioni di petrolio dal KRG dal 2018 al 2022.
In ogni caso, non sembra trattarsi tanto di una questione economica – la richiesta irachena di risarcimento iniziale era molto più alta, e peraltro l’Iraq, in mancate rendite petrolifere, ha già perso più di quanto potenzialmente guadagnerebbe dal risarcimento – quanto più che altro di una controversia politica: Baghdad ha valutato l’esito dell’arbitrato di marzo come una vittoria (sia rispetto ad Ankara sia rispetto a Erbil), mentre la Turchia sta facendo pesare parecchio il proprio peso politico rispetto a risorse che per l’Iraq ricoprono una vitale importanza. Rimane, quindi, da capire come i due Paesi gestiranno la questione tanto dal punto di vista legale quanto operativo, così come quanto e in che modo altri dossier aperti dal punto di vista geo-economico e geopolitico peseranno sulla sua risoluzione.