Un anno e mezzo, 93 miliardi di euro e un rigassificatore galleggiante più tardi, l’Italia del “dopo Ucraina” assomiglia ancora molto, forse troppo, all’Italia del “pre-Ucraina”. Con una cruciale differenza: la sicurezza energetica è tornata a essere uno dei fattori che, nella testa dei decisori politici e dunque anche degli imprenditori, condizionerà le scelte di politica energetica negli anni a venire. In questi mesi l’Italia sta entrando in una fase di transizione, che segna il passaggio da una fase di crisi acuta a una di cambiamento strutturale e riassestamento economico.

Nel periodo di crisi acuta, quello vissuto l’anno scorso, il prezzo del gas naturale al Title Transfer Facility di Amsterdam (TTF) è stato in media di 130 €/MWh, cioè oltre sette volte i 18 €/MWh medi del periodo 2011-2019 (prima dei minimi della pandemia, ma anche prima del rimbalzo post-pandemico del 2021 che ha in parte preceduto e in parte coinciso con la crisi “russa”). Prezzi mai visti, quelli del 2022, così come mai vista è stata la spesa destinata dai Paesi europei per affrontare la crisi, e in particolare per fornire un sostegno a famiglie e imprese in difficoltà: oltre 750 miliardi di euro, di cui 93 miliardi da parte della sola Italia (il 5,2% del nostro PIL).

Qualche considerazione sulla gestione di questa fase di crisi acuta, e sulla sua evoluzione. Se ci sono diverse ragioni, per lo più politiche, per spiegare l’approvazione di sussidi così onerosi (in gran parte destinati a ridurre i prezzi di gas ed elettricità in bolletta) in tutti i Paesi europei, nessuno escluso, è cruciale chiedersi a quanto questi siano serviti. Ebbene, a fronte del succitato impegno di spesa italiano quest’inverno la bolletta del gas per gli utenti in maggior tutela è stata del 20% più bassa di quanto sarebbe stato altrimenti, e la bolletta elettrica è stata del 10% più bassa. A fronte di bollette mediamente raddoppiate (gas) o più che triplicate (elettricità), una spesa simile per un effetto così modesto è davvero giustificata? Ed è valsa la pena di rischiare di sostenere artificialmente la domanda proprio nel momento in cui i consumi sarebbero dovuti scendere, per evitare il pericolo razionamenti?

Per quanto riguarda l’evoluzione della crisi, bisogna ricordare che lo scorso autunno e inverno due condizioni hanno impedito il verificarsi di un’emergenza ancora più acuta. Da un lato, temperature in media 1,5°C più elevate rispetto alla “normalità” degli ultimi vent’anni hanno permesso di risparmiare circa 4,5 miliardi di metri cubi (mld mc) di gas rispetto alle previsioni della vigilia, a fronte di risparmi totali per 11 mld mc. Insomma, ben il 40% dei risparmi italiani è stato determinato dal clima, non da azioni consapevoli e responsabili. Dall’altro lato, proprio il clima mite ha spinto verso il basso i prezzi, convincendo la Russia a non ridurre ulteriormente le forniture per non dover far fronte a entrate ancor più ridotte. Ciò ha fatto sì (e questo tendiamo a dimenticarlo troppo in fretta) che nel corso degli ultimi otto mesi le forniture russe non siano affatto andate a zero, né vi si siano avvicinate. Certo, sono crollate; ma da circa 160 mld mc/a a 50 (di cui circa 25 via pipeline e 25 via metaniere GNL). Insomma, a fronte di una riduzione dei consumi europei da 400 a 360 mld mc/a, il ruolo della Russia nell’approvvigionamento europeo è sì crollato dal 40% al 14%, ma un ammanco di altri 50 mld mc/a sarebbe difficile da coprire altrimenti.

È in queste condizioni che ci troviamo a gestire il passaggio alla fase di cambiamento strutturale e di adattamento dei nostri sistemi energetici al “dopo Ucraina”. Ci entriamo con gli stoccaggi europei “pieni” rispetto alla normale media annua: 73% della capacità massima a metà giugno, contro una media del 58% circa nel 2015-2019. Va ancora meglio per l’Italia, con gli stoccaggi pieni al 78%.

Non è certo un caso se anche i prezzi siano crollati, ormai al di sotto della soglia psicologica dei 40 €/MWh e con punte minime di 23 €/MWh. Tuttavia, i recentissimi rialzi (siamo passati dai 25 €/MWh del 4 giugno ai 36 €/MWh del 13 giugno) non devono sorprendere. Sono frutto da un lato, dell’incertezza, dall’altro, di supporti strutturali ai prezzi in un’epoca in cui il metro cubo marginale di gas non è più determinato da Mosca, ma dal costo del trasporto del GNL (tendenzialmente americano) che occorre per riportare in equilibrio domanda e offerta. Secondo calcoli di Brainpool, trasporto via terra, liquefazione, trasporto via mare e rigassificazione del gas naturale americano costerebbero circa 20 €/MWh. A questo costo va aggiunto quello della materia prima gas, ovvero dell’Henry Hub. Che al momento quota intorno ai 7 €/MWh. Esiste dunque un supporto al prezzo del gas europeo che si attesta ormai intorno ai 30 €/MWh, ben superiore alla media di 18 €/MWh del periodo 2011-2019 che abbiamo menzionato in precedenza, e che potrebbe ulteriormente salire sulla base del costo del gas negli Stati Uniti.

Come dicevamo, naturalmente, l’attuale tendenza al rialzo del gas naturale europeo non dipende esclusivamente da questo supporto, ma anche dall’incertezza che vivono gli operatori sui mercati, e che si può sintetizzare in questa domanda: con gli stoccaggi europei a livelli già così elevati, ha senso importare adesso un metro cubo in più di gas, nella speranza di rivenderlo questo inverno? Non è un caso se in queste ultime settimane i prezzi abbiano risentito così tanto di previsioni meteo che prospettano un’estate molto calda in Europa e in Asia (e dunque maggior utilizzo di elettricità per condizionare, ovvero di gas per produrre quella elettricità), e di una riduzione delle forniture di gas dalla Norvegia che, cominciata a metà maggio, potrebbe ora proseguire fino a metà luglio.

E se è vero che, con la graduale entrata in funzione del rigassificatore galleggiante di Piombino, l’Italia potrebbe virtualmente fare a meno della Russia (dalla quale quest’anno stiamo importando gas per circa 6 mld mc/a, pressappoco la capacità di importazione del rigassificatore, a regime – 5 mld mc/a), è anche vero che quel gas, se non sarà russo, da qualche parte bisognerà pur trovarlo. D’altra parte, mentre l’Algeria continua a deludere le aspettative politiche e a confermare quelle degli operatori (nessun aumento delle esportazioni verso l’Italia nel corso degli ultimi dodici mesi), le nuove forniture di GNL da Egitto, Congo e Mozambico impiegheranno ancora del tempo prima di materializzarsi.

Restano poi ancora diverse incognite. Prima tra tutte, la questione dell’idroelettrico. Nel 2022, a causa della siccità la produzione idroelettrica in Italia si è attestata sotto i 30 TWh: una riduzione del 44% rispetto alla media dell’ultimo decennio e il risultato peggiore dal 1954. Nel 2023, malgrado un maggio piovoso, i primi cinque mesi dell’anno sono sostanzialmente in linea con il 2022. Sarebbe la prima volta nella storia d’Italia che una siccità così grave si protrae per due anni. Dovessero concretizzarsi queste previsioni, le installazioni di eolico e solare dell’anno scorso (meno di 3 GW) da sole basterebbero a colmare solo il 30% dell’ammanco di produzione idroelettrica: il resto, oltre che da una riduzione continuativa della domanda di elettricità, potrà arrivare soltanto da maggiori consumi di carbone o di gas.

In conclusione, nel corso della fase acuta della crisi, l’Italia è stata “soccorsa” da un periodo invernale molto mite e dall’assenza di un ulteriore taglio delle forniture russe. È riuscita a uscire da questa prima fase di crisi malgrado il peggior anno di sempre per l’idroelettrico – anche se quest’anno su questo versante si trova ad affrontare condizioni non dissimili. Per il futuro, tuttavia, si dovrà dare risposta a due grandi incertezze: come recuperare la competitività perduta, con prezzi del gas in Europa circa doppi rispetto a quelli del passato recente; e come evitare di dar fondo alla limitata capacità di spesa italiana con manovre di sostegno ai consumi, di carattere, a conti fatti, populista, anziché destinare almeno parte di questi capitali a investimenti strutturali che accelerino la transizione energetica.