La transizione “ecologica” è, appunto, transizione. Un processo in cui il fossile si ritira progressivamente dalla scena mantenendo nel mentre un suo ruolo in commedia. Quale sia il ruolo del fossile nell’uscita di scena lo definiscono poi la celerità degli investimenti sostitutivi ed il progresso di tecnologia; e i tempi dell’uscita li dettano la capacità di costruire nuova generazione e la velocità di sostituzione dei convertitori, inclusi quelli domestici (dall’auto al boiler alla cucina a gas). In un mondo che si avvia a 9 miliardi di abitanti direi nulla di possibilmente immediato.
Il futuro, ci dicono, dovrà essere sempre più elettrico, non solo perché l’elettricità è indispensabile al digitale, ma anche perché l’elettricità è in pratica, al netto dell’idrogeno, l’unica forma di fruizione dell’energia generata da rinnovabili (e anche da nucleare). Anche qui il tempo è però meno che istantaneo. Oggi nel mondo consumiamo in forma di elettricità grosso modo il 21% dei nostri consumi energetici finali; e quasi un 40% dell’elettricità che consumiamo è ancora generato a carbone.
Non tutto, oggi, potrebbe comunque essere elettrificato. Non lo sono, ad esempio, se non parzialmente, i settori c.d. hard to abate, dal cemento all’acciaio a trasporti pesanti e aerei. Qui aiuterà forse l’idrogeno; ma soprattutto se lo vogliamo solo verde non sarà per domani mattina. E non è tra l’altro detto che al di fuori degli usi caratteristici dell’idrogeno ci convenga consumare energia elettrica per produrre idrogeno invece che consumare elettricità (grosso modo, se abbiamo un kWh di elettricità rinnovabile mettendolo in rete spiazziamo 2kWh di gas; e usandolo per fare idrogeno verde ne spiazziamo solo mezzo).
Poi c’è la rete elettrica, che mentre sviluppiamo la tecnologia degli accumuli non riusciamo a tenere per oggi bilanciata facendo del tutto a meno del gas, magari tenuto a disposizione sul mercato della capacità. E poi, tecnologicamente, altro ancora ci sarebbe e ci sarà. Uno dei problemi del modellare è l’incapacità di assumere il mutamento tecnologico; e le alternative di cui discettiamo oggi potrebbero rivelarsi radicalmente diverse dalle nuove applicazioni del domani.
Il ruolo del fossile nella transizione risponde insomma oggi alla necessità di soddisfare della domanda di energia di chi, famiglia o impresa, non è in grado di convertirsi ad altra fonte; e all’utilità di tenerci un guardiano del faro che illumini l’attesa di tecnologia e di sua installazione. E però c’è anche altro. Il fossile che diventa forse paradossalmente la nostra riserva di energia. La sicurezza energetica è anzitutto ridondanza. Fare scorta per il caso che qualcosa vada male. Che può essere l’invasione dell’Ucraina; ma anche solo un rallentare del nostro calendario forzato di decarbonizzazione. La decarbonizzazione e la difficoltà di accumulo ci impediscono di fare scorta con la generazione rinnovabile. Appena è generata, se ne va in rete a spiazzare il fossile. Il fossile anche è l’unica ridondanza possibile; e perciò anche necessaria. Il fossile, e soprattutto il gas, come carburante di riserva della transizione.
Stiamo parlando di scorta, e non di produzione. Di mettere fieno in cascina in punto di sicurezza della disponibilità in caso di necessità. Parliamo comunque di creare ridondanza; come tale economicamente possibile solo in presenza di una politica di impegno pubblico. Non si fa magazzino giusto con capitale privato. Le vicende del gas possono essere citate ad esempio. Il metano a inizio dello scorso anno non aveva quasi neanche iniziato la sua uscita di scena; e per compensare il gas russo che veniva meno non abbiamo potuto sostituire con rinnovabili ma solo andare in cerca di gas non russo. La decarbonizzazione si è intrecciata con la derussificazione. Abbiamo dovuto riempire stoccaggi (a carissimo prezzo) e comprare nuova infrastruttura in forma di rigassificazione.
Però l’obiettivo europeo di Fit for 55 rimane sul tavolo; e ci impone di tagliare grosso modo di un 20% di qui al 2030 i nostri consumi di metano. I volumi di russo che ci è necessario rimpiazzare equivalgono grosso modo ai volumi di metano che di qui al 2030 ci toccherebbe di tagliare. Stiamo facendo infrastruttura e scorta sotto la spinta dell’emergenza; e se decarbonizzeremo per davvero l’emergenza andrà a mutarsi in ridondanza. Il tutto non sarebbe possibile senza intervento pubblico; e però se superata l’emergenza ci ritroveremo con qualche eccesso di capacità di importazione ci toccherà di gestirla come capacità di riserva.
Poi però anche con la ridondanza meglio non esagerare. Il vettoriamento di ulteriore gas dal Sud al Nord dell’Italia ha, ad esempio, come condizione il necessario completamento della dorsale adriatica, che al meglio avverrà tra quattro anni e dunque non lontano dal 2030. Non necessariamente però la dorsale deve fare da araldo di nuova infrastruttura di importazione. O la decarbonizzazione rallenta, o la previsione ad esempio di nuovi rigassificatori nel Sud della penisola rischia di tradursi in puro eccesso di ridondanza.
La decarbonizzazione detta o almeno suggerisce le forme della capacità di importazione aggiuntiva. Le nuove infrastrutture dovrebbero per quanto possibile essere mobili (che così magari quando ridondano ci può riuscire di rivenderle, che il resto del mondo in prevalenza decarbonizza più adagio dei tempi di Bruxelles) e dunque offshore; e anche flessibili per capacità potendosi riadattarsi domani a commodities diverse dal metano (ammoniaca, idrogeno…).
Ultima notazione. Assistiamo ad un palese crollo degli investimenti nella ricerca e sviluppo di idrocarburi. Rischiamo pur con abbondanza di idrocarburi nel sottosuolo di ritrovarci corti di produzione. Sono investimenti di lungo periodo; ed è bastato l’annuncio della decarbonizzazione per decretarne l’eccesso di rischiosità. Qualche analista ci avvisa che persino se sostituissimo il fossile alla velocità di Fit for 55 rischieremmo comunque di andare corti sul lato dell’offerta e dover attraversare una nuova crisi di prezzo. Fermare da subito gli investimenti, come anche il verde governo tedesco ora avverte, non è buona politica; anche perché, come da ultimo ci avvisa il Politecnico di Milano, se non cambiamo passo rischiamo di arrivare al 2030 avendo installato nuova generazione rinnovabile pari solo alla metà di quanto programmato.solo la metà del nostro obiettivo di decarbonizzazione
Il fossile, soprattutto il gas, non va perciò chiuso, ma solo accompagnato con cortesia all’uscita. Contenendo nel percorso il potenziale di diseguaglianza sociale comunque implicito in una transizione che non sarà un pasto gratis. Cambiare fonte e/o convertitore non è cosa per redditi bassi. La mia amata Signora Gina non passerà dalla cucina a gas a quella a convezione solo perché animata da spiriti verdi (al momento ha altre priorità da affrontare se vuole arrivare a fine mese). Sostenibilità ambientale non è sempre sinonimo di sostenibilità economica; e ci vorrà e ancora sostegno pubblico per garantire l’equità della transizione. I tempi della decarbonizzazione li decidono sostegno statale, investimenti e tecnologia; e però anche in democrazia il consenso. Senza equità il consenso si disperde; e senza consenso i gilet gialli si moltiplicano, e la transizione si ferma.