Dopo la guerra nei Balcani degli anni Novanta, l’Europa è nuovamente scena di un conflitto militare dalle prospettive incerte, ma con un “alone di sofferenza” della popolazione ucraina sempre più crescente. In questi sedici mesi dall’inizio del conflitto fiumi di parole e di analisi sono state pubblicate per cercare di comprendere quali siano state le motivazioni che hanno indotto la Russia di Putin ad invadere l’Ucraina, avviando la cd. “operazione militare speciale”.
È bene precisare che non ci può essere nessuna giustificazione nei confronti del Cremlino per un atto del genere, ma è anche doveroso che gli scienziati politici diano un contributo di riflessione (senza ridursi a mero tifo per una parte o per l’altra) per evitare che questa tragedia possa ripetersi in altri contesti. Un punto di partenza è ricorrere alla lettura delle fonti primarie russe (concetti di politica estera e di difesa), ai discorsi del presidente russo Vladimir Putin per individuare non solo il tipo di narrativa proposta all’opinione pubblica russa, ma anche quali possano essere i temi politici salienti che hanno condotto all’invasione di un paese indipendente e sovrano dal 24 agosto 1991.
Il primo e più ricorrente argomento è la questione dell’ampliamento ad Est. Ormai vi sono documenti di archivi, soprattutto della cancelleria tedesca della fine degli anni Ottanta e anni Novanta che descrivono gli incontri avvenuti fra Michail Gorbačëv e il presidente americano George Bush Senior, così come quelli fra Boris El’cin e Bill Clinton. Un filo rosso comune in questi dialoghi è la “broken promise”, la promessa non mantenuta dai Presidenti americani che non ci sarebbe stato alcun ampliamento ad Est. Si tratta di “parole al vento” che non sono mai state tradotte in un accordo scritto e, come tale, suscettibile nel tempo di cambiamento di strategia. Se ogni paese legittimamente può richiedere di entrare a far parte della NATO, cosa già avvenuta per la Georgia e l’Ucraina nel 2008, ma con esito negativo, i ripetuti segnali di contrarietà del Cremlino forse avrebbero dovuto richiedere un’ulteriore riflessione sull’opportunità politica di una scelta di questo genere. Ciò, soprattutto dopo il monito espresso da Putin alla conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007. Sono scelte politiche che evidentemente non sono state sostenute anche da una capacità di visione strategica, come era successo per la “neutralità” della Finlandia.
Tuttavia, la questione dell’ampliamento è strettamente connessa ad un’altra situazione che è dirimente per comprendere le reali motivazioni russe: la ridefinizione dell’ordine internazionale a guida egemonica statunitense. La crescente “amicizia illimitata” della Russia con la Cina si basa su una esplicita volontà di porre fine all’unipolarismo e sfidare il sistema globale dal punto di vista politico, economico e valoriale. Il conservatorismo russo - che poggia sugli ideali di “Patria, ordine e famiglia” - trova, infatti, un sostegno anche religioso nella Chiesa ortodossa russa, che ripetutamente negli anni, ha manifestato disappunto e delusione per il “decadentismo valoriale” del mondo occidentale (in particolare contro la comunità LGBT+).
Dal punto di vista economico, la globalizzazione è, invece, considerata dal Cremlino e dai suoi alleati come un sistema che ha generato solamente diseguaglianza e povertà nel mondo. Già questi elementi sono sufficienti per comprendere come l’invasione russa non possa essere circoscritta solamente ad uno scontro tra due Stati, ma assuma, invece, una valenza di natura politica molto più ampia.
Indubbiamente, il rapporto fra l’Ucraina e la Russia è stato costellato da contrasti politici molto profondi che risentono dell’alternanza al potere dei vari Presidenti ucraini, alcuni dei quali erano di orientamento filo-russo e altri filo-occidentale. È una frattura politica, sociale e culturale che ha permeato la storia e lo sviluppo politico dell’Ucraina con risvolti anche di natura economica e che ha profondamente diviso il paese tra una parte settentrionale, molto più vicina al “nostro” sistema di valori e una parte meridionale/orientale più orientata alla Russia.
Con le elezioni di Petro Porošenko e Volodomyr Zelensky, l’Ucraina ha impresso una svolta nazionalista che ha ridimensionato il ruolo dei russofoni nel paese e ha accelerato un processo di europeizzazione che non poteva essere accettato dalla Russia.
La più profonda e concreta motivazione che ha indotto la Russia a compiere un gesto politico così violento è, infatti, la ferma volontà di non “perdere” l’Ucraina dalla propria sfera d’influenza. È un percorso che il Cremlino aveva già iniziato nel 2014, con l’annessione illegale della Crimea alla Russia e che doveva terminare con un cambio di regime per instaurare un governo ucraino più filorusso.
Perdere l’Ucraina per la Russia significa dal punto di vista politico, ma anche psicologico affrontare un dramma come quello del crollo dell’URSS, definita dallo stesso Putin: “la più grande tragedia del XX secolo”. Una catastrofe non tanto dal punto di vista politico, ma essenzialmente per la perdita dei territori facenti parte dell’Unione Sovietica e con essi anche di milioni di persone determinando un problema demografico a partire dagli anni Novanta per la nuova Federazione russa. Nella visione putiniana esistono, quindi, molteplici aspetti che hanno implicato la convinzione che il processo di occidentalizzazione dell’Ucraina dovesse essere fermato al più presto: bloccare le continue, secondo il Cremlino, interferenze americane ed europee nei paesi post-sovietici, volte ad indebolire la potenza russa in ambito internazionale così come una rivisitazione storica del rapporto fra Ucraina e Russia in un’ottica di un rinnovato imperialismo russo. Tutti elementi nostalgici che, attraverso la propaganda del Cremlino, riescono ancora a influenzare una parte della popolazione russa che sostiene il disegno autoritario del presidente.