Il servizio idrico ha cambiato marcia negli ultimi dieci anni. La regolazione ARERA, l’avvio e l’operatività degli enti di governo d’ambito e l’affermarsi della gestione industriale disegnano quella che, in più occasioni, abbiamo chiamato “rivoluzione industriale” delle regole. Un percorso nato per affrancare la gestione dell’acqua dall’ingerenza e dai bilanci dei Comuni per restituire al Paese operatori in grado di esprimere economie di scala e competenze, chiudere le distanze nella qualità del servizio e negli investimenti che ancora ci separano dall’Europa che conta.

Nonostante il passaggio di testimone dai Comuni alle aziende industriali sia avvenuto, qualche regione del nostro Mezzogiorno è rimasta indietro. Nei territori in cui questo cammino è avanzato, i miglioramenti sono visibili: ci siamo dotati dei depuratori e delle fognature previsti dalle Direttive europee dei primi anni ‘90, la qualità del servizio ha raggiunto standard adeguati, con punte di eccellenza, si investe per ridurre gli impatti ambientali e si approntano iniziative di adattamento per mitigare le conseguenze del clima che cambia. Certamente le tariffe sono aumentate, in linea con il maggiore sforzo profuso e gli investimenti, ma al contempo le utenze economicamente disagiate sono state protette dagli aumenti delle bollette, e sono stati introdotti rimborsi automatici agli utenti in caso di mancato rispetto degli standard delle prestazioni.

In questa parte del Paese gli investimenti programmati sono quintuplicati rispetto ai valori dei primi anni 2000 e si portano verso i 70-80-90 euro pro capite nel 2023, con un tasso di realizzazione degli impegni superiore al 90% (era inferiore al 50% prima della regolazione ARERA). Con questi 3-4 miliardi di euro all’anno si realizzano interventi di manutenzione e opere che sono necessari per mantenere in buono stato le infrastrutture, migliorare la qualità del servizio e ridurre gli impatti sull’ambiente.  Negli ultimi dieci anni i 2/3 del Paese ha chiuso o comunque è avviato a chiudere i conti con il passato.

Un’altra parte del Paese, minoritaria e in prevalenza nel Mezzogiorno, manca ancora di gestori idrici, perché non ha saputo esprimere un chiaro indirizzo in questo senso. L’EIPLI, il soggetto pubblico deputato alla gestione delle dighe e delle infrastrutture di approvvigionamento nel distretto dell’Appennino meridionale, è in liquidazione da più di 10 anni, con la conseguenza che non solo non si investe, ma nemmeno vengono eseguite le manutenzioni: negli invasi si può oggi trattenere il 30% di acqua in meno rispetto alla reale capienza, e quest’acqua preziosa, che non viene trattenuta, deve essere lasciata defluire per incuria e trascuratezza. Un vero e proprio assurdo. Anche la società pubblica pensata per gestire le infrastrutture del Mezzogiorno, prevista dalla Legge di bilancio 2018, e che avrebbe dovuto vedere impegnati il Ministero dell’Economia e le Regioni, non è mai decollata.  

E mentre ci accingiamo con fatica a raggiungere gli obiettivi delle Direttive europee dei primi anni ’90, l’asticella del servizio si alza ulteriormente, la gestione del servizio idrico torna al centro di una nuova emergenza. Lo spettro “siccità” si manifesta in tutta la sua concretezza dopo decenni in cui la disponibilità della risorsa idrica è stata considerata scontata: il ciclo idrico integrato si scopre oggi più fragile, alle prese con risorsa idrica più scarsa e che va tutelata.

Sino a ieri il problema era dotare il Paese di quella rete di depuratori che ancora mancano in alcune regioni del nostro Mezzogiorno; oggi, la scarsità di acqua affligge anche le regioni del Nord, dalla Pianura Padana alle Prealpi, dove da sempre la preoccupazione era quella di gestirne l’abbondanza: dal problema delle falde sempre più alte, delle risorgive e degli smottamenti siamo passati a razionamenti, risalita del cuneo salino e fiumi che non riescono più a garantire il deflusso minimo vitale, la quantità minima di acqua necessaria a preservare la vita.

La recente Direttiva sulle acque potabili ci ricorda che ci sono nuovi inquinanti emergenti dei quali dobbiamo farci carico, di cui ci chiede di monitorare presenza e concentrazioni; la nuova proposta di Direttiva acque reflue statuisce la rimozione di microplastiche e farmaci nei depuratori, prevedendo trattamenti più incisivi per assicurare che l’acqua reimmessa nell’ambiente non danneggi gli ecosistemi; ancora ai nostri depuratori si chiede di raggiungere l’autosufficienza energetica, cioè contribuire con la produzione di energia rinnovabile alla decarbonizzazione. E accanto alle misure di mitigazione dei cambiamenti climatici, le soluzioni di adattamento appaiono sempre più indifferibili e basate su robuste analisi dei rischi ai cambiamenti climatici, sul riuso in agricoltura dell’acque depurate e affinate e su nuove opere, invasi e accumuli per trattenere le acque piovane, sino ai desalinizzatori per soddisfare le punte di domanda stagionali.

Il recupero di fertilizzanti e di energia dai fanghi è l’altra nuova frontiera del servizio idrico: perché le nostre città saranno smart solo se saranno capaci di recuperare materie prime seconde, combustibili ed energia dagli scarti.

Nuove sfide arrivano poi dalla gestione delle acque meteoriche, per l’adattamento a episodi sempre più frequenti di piogge copiose e allagamento dei centri urbani: anche qui, accanto alle infrastrutture “grigie”, ci sono le soluzioni basate sulla natura (interventi che utilizzano il verde e la natura per migliorare la qualità ambientale e la qualità della vita nelle città) che aiutano a raccogliere le acque piovane, prevengono gli allagamenti e riducono gli inquinanti che finiscono nei fiumi e nei mari.

Se da un lato, il servizio idrico aveva già un ingente fabbisogno ereditato da un lungo periodo di bassi investimenti, dall’altra, vi sono nuovi e ancora più pressanti fabbisogni emergenti che indicano chiaramente la nascita di operatori industriali per affrontare le sfide di un mondo che cambia.

Per tenere il passo, il servizio idrico deve allargare ora il perimetro di azione, estendere le proprie competenze, acquisire capacità di organizzare, progettare e realizzare come mai hai fatto prima d’ora, disporre di maggiori risorse da investire, raccogliere un mandato e la fiducia dei territori. Per fare questo occorrono operatori capaci di gestire il servizio: solidi, strutturati e con competenze più ampie, che spaziano dagli ambiti tecnici a quelli della pianificazione economica e finanziaria, della sostenibilità e della comunicazione. 

Perché senza operatori industriali in grado di attrarre risorse, realizzare le opere, esercirle e dialogare con i territori non c’è adattamento, e la transizione ecologica somiglia sempre più ad un cammino incerto e fitto di ostacoli.