La dimensione industriale del processo di decarbonizzazione viene sempre più narrata in termini strategici. Negli ultimi anni i maggiori attori statuali hanno iniziato a interpretare il controllo su filiere e tecnologie verdi come fattore di potenza e riduzione della vulnerabilità in un contesto geopolitico volatile. Se USA ed Europa mostrano in questo contesto importanti interessi comuni, permangono divergenze che riflettono interessi, principi e capacità.

Con l’adozione dell’Inflation Reduction Act (IRA), gli Stati Uniti hanno introdotto sussidi per 391 miliardi di dollari per clima e sicurezza energetica. Il pacchetto rappresenta il maggiore intervento di politica climatica nella storia degli USA, in grado di ridurre le emissioni statunitensi di gas serra del 32-42% entro il 2030 rispetto al 2005. Oltre ad un’iniziativa climatica, l’IRA costituisce una manovra di politica industriale, volta a stimolare innovazione e sviluppo di filiere domestiche e tecnologie necessarie alla decarbonizzazione.

 

Sebbene l’Europa percepisca favorevolmente l’impegno climatico dell’amministrazione Biden, la tendenza protezionista delle misure americane ha suscitato perplessità a Bruxelles. L’Ue teme che le mosse di Washington possano tradursi in una migrazione di produzioni ad alto valore aggiunto verso gli Stati Uniti, grazie alla promessa di energia a buon mercato e ampi sussidi. Se da un lato, sono emerse da parte europea osservazioni difensive sull’approccio USA - formalizzate nella contestazione ai crediti di imposta previsti dall’IRA in nove settori - dall’altro, si moltiplicano gli appelli alla costituzione di un “IRA europeo.”

 

Al forum di Davos, la presidente della Commissione von der Leyen ha delineato i contorni di tale possibile risposta. Questa includerà un net zero industry act volto a semplificare e accelerare le procedure di permesso per siti di produzione di tecnologie pulite. In parallelo, si prevede un potenziamento degli “importanti progetti di interesse comune” – strumenti di sostegno a consorzi che coinvolgano diversi stati membri, finalizzati alla ricerca e a progetti pilota in settori strategici. L’atto accompagnerà un già atteso Critical Raw Materials Act, volto a sviluppare una filiera europea per il processamento e il riciclo di materie prime critiche necessarie alla transizione energetica. Un secondo pilastro riguarda gli investimenti. Von der Leyen ha menzionato un allentamento della disciplina sugli aiuti di stato e line guida sui crediti di imposta per gli investimenti in capacità nelle filiere di interesse, annunciando inoltre l’istituzione – in tempi più lunghi - di un “fondo di sovranità”, come parte della revisione di medio termine del quadro finanziario pluriennale 2021-2027. Il terzo pilastro riguarderebbe il sostegno alla formazione nei settori delle tecnologie pulite, mentre il quarto pilastro richiama la centralità degli accordi di libero scambio nella strategia industriale Ue.

 

Le parole di von der Leyen non sembrano introdurre elementi di sostanziale innovazione. Lo strumento commerciale continua ad essere percepito da Bruxelles come il più efficace, se non altro perché già centralizzato. Il linguaggio rimane ancora incerto per quanto riguarda gli strumenti fiscali, né sembrano esserci riferimenti al problema dell’eccessiva frammentazione delle iniziative europee, lascito di un decennio di crisi affrontate con una sovrapposizione di iniziative ad hoc. Ci si chiede dunque se l’Ue possa o voglia davvero riprodurre l’approccio geoeconomico USA alla politica industriale verde. Quali motivi spiegano la persistente diversità negli approcci?

 

Un primo motivo di differenza risiede nel diverso inquadramento che USA e UE danno al ritorno della politica industriale. Negli USA, l’ondata di interventismo federale a sostegno delle tecnologie pulite viene giustificato dalla necessità strategica di ridurre l’interdipendenza con la Cina, che negli scorsi decenni ha consolidato una posizione dominante su diverse filiere verdi. In questo senso, una politica protezionista compenserebbe il tessuto industriale USA dei costi legati ad una incombente – sebbene finora largamente teorica - frammentazione “politica” delle filiere. Diversamente, l’Europa non sembra guidata da un desiderio di disaccoppiamento, ma di mitigazione del rischio. Se in questa preferenza si nota una significativa componente ideale – l’Ue come potenza trasformativa attraverso norme e mercati, intenzionata a preservare i dividendi economici e politici dell’interdipendenza – occorre tenere presente un’importante dimensione materiale: l’inevitabile dipendenza europea dalle filiere verdi internazionali – almeno nel breve-medio termine – e l’interesse delle multinazionali europee ad acquisire accesso preferenziale al mercato cinese.

 

Un secondo motivo risiede nella frammentazione verticale della governance europea. Un’azione di politica industriale paragonabile all’IRA richiederebbe un allineamento degli stati, al momento divisi sul tema. Gli stati con meno margini di manovra fiscale vedono in un’azione comune la possibilità di proteggere la propria competitività da azioni unilaterali di stati con maggiore spazio fiscali, quali quelle che si profilano con l’allentamento della disciplina sugli aiuti di stato. Altri, come Olanda, Germania e paesi nordici preferiscono soluzioni di compromesso con gli USA basati su strumenti commerciali ed esenzioni ad hoc. Questi paesi, tradizionalmente scettici nei confronti di schemi di indebitamento comune, temono che una corsa USA-Ue ai sussidi verdi possa da un lato, compromettere l’integrità del commercio internazionale dal quale dipendono i propri surplus, dall’altro stimolare una richiesta continua da parte dei propri attori industriali dietro la minaccia di delocalizzazione verso gli USA.

 

Vi sono, infine, differenze nei rispettivi quadri politico-istituzionali. Il panorama politico USA rimane polarizzato sul tema climatico, nel contesto di un sistema elettorale che rende frequenti i rovesciamenti delle politiche da un’amministrazione all’altra. Queste caratteristiche rendono gli USA in grado di avanzare la propria azione climatica solo attraverso grossi esborsi occasionali, quando le circostanze politiche lo consentono. Un quadro diverso dall’Europa, in cui una minore polarizzazione e processi decisionali consensuali si traducono in un regime di politiche climatico-industriali più articolato, che accompagna ai contributi finanziari strumenti stabili e incrementali per dare un costo alle emissioni o per regolamentare i mercati. Insomma, nonostante venga spesso letto come prova di forza, l’IRA rivela al contempo i limiti di politica e istituzioni USA nell’acquisire una leadership internazionale credibile sulla sfida multilaterale per eccellenza – quella del clima.

 

In questo senso, la strada per l’Europa appare stretta. Da un lato, non potendo semplicemente replicare l’IRA, l’Ue ha bisogno di convincere Washington che l’unilateralismo industriale ha importanti implicazioni esterne. Tale unilateralismo riduce la massa critica transatlantica necessaria al controllo di norme e standard su tecnologie e filiere pulite, e riduce per l’Europa gli incentivi all’allineamento con gli USA su importanti dossier strategici concernenti la Cina. Dall’altro, deve continuare a definire e costruire un’agenda di riduzione del rischio nell’accesso a filiere e tecnologie, attraverso un approccio che – sebbene inevitabilmente focalizzato sulla diversificazione nel breve-medio termine – non può prescindere dalla costituzione di credibili strumenti comuni di politica industriale.