Tra poche settimane, il 15 febbraio, entrerà in vigore il famigerato price cap sul gas. Potremo forse scoprire se avevano ragione i fautori di tale misura, secondo i quali esso consentirà di tagliare le unghie alla speculazione, oppure i critici, convinti che mettere un tetto al prezzo possa esacerbare la scarsità di gas e compromettere la già precaria sicurezza degli approvvigionamenti. È più probabile, però, che saremo costretti a tenerci il dubbio ancora per un po’. L’andamento attuale dei prezzi – nel momento in cui scriviamo questo articolo, le quotazioni al TTF veleggiano al di sotto dei 70 €/MWh – è ben lontano dalla soglia oltre la quale scatta il “meccanismo di correzione del mercato” su cui Consiglio e Commissione Ue hanno trovato il compromesso politico lo scorso 19 dicembre
Il cap, infatti, entra in esercizio se – per tre giorni lavorativi consecutivi – sono rispettate due condizioni: i) il prezzo dei prodotti month ahead quotati sul TTF supera i 180 €/MWh; ii) la differenza tra il prezzo dei prodotti month ahead e le quotazioni spot del GNL supera i 35 €/MWh. In sostanza, il tetto si materializza non solo se i prezzi sono eccezionalmente alti, ma anche se questa condizione è peculiarmente europea e non dipende dall’andamento dei mercati internazionali. È difficile, per il momento, dire quanto questa misura sia emergenziale e quanto invece sia destinata a integrarsi nell’ordinario funzionamento del mercato. In retrospettiva, nel 2022 sarebbero stati almeno una quarantina i giorni in cui il meccanismo si sarebbe attivato: un numero considerevole. Contemporaneamente, se guardiamo avanti – e prendiamo a riferimento la curva dei prezzi forward per il 2023 – sembra assai improbabile che sperimenteremo gli effetti del cap.
D’altro canto, la misura – che costituisce almeno all’apparenza un successo politico della coalizione di Stati guidati dall’Italia – nella sostanza lo è più degli Stati preoccupati dagli effetti avversi dell’intervento. In primo luogo, non è un vero e proprio tetto. Le quotazioni sul TTF potranno infatti superare anche i 180 euro/MWh purché il differenziale con i prezzi GNL non superi i 35 €/MWh. Inoltre, numerose sono le cause per cui è possibile sospendere il meccanismo. In particolare, la sua applicazione sarebbe congelata se vi fosse evidenza che mette a repentaglio la sicurezza degli approvvigionamenti, la stabilità finanziaria, i flussi intra-europei di gas o stimola un aumento della domanda. È praticamente certo che – in uno scenario di alti prezzi – un calmiere produca questi effetti; la domanda è allora, da un lato, quanto saranno grandi e, dall’altro, quanto sarà severo il monitoraggio sul loro verificarsi.
A ogni modo, in questo momento sembra improbabile che i prezzi tornino sui livelli record che abbiamo osservato nella seconda metà del 2022. Sono intervenuti, infatti, due cambiamenti fondamentali. In primo luogo, la domanda europea di gas si è ridotta molto più di quanto ci si potesse attendere, tanto che a gennaio 2023 il livello di riempimento degli stoccaggi nell’Ue è ancora superiore all’80% e addirittura vi sono momenti in cui il gas viene iniettato nei giacimenti (normalmente in questo periodo dell’anno ci si trova al 70% o sotto). Ciò dipende in gran parte dalle temperature eccezionalmente alte, soprattutto per i consumi delle famiglie, ma anche dalla reazione forse superiore alle attese dei consumi industriali agli elevati prezzi del gas nei mesi precedenti. Secondariamente, il prolungarsi del conflitto e il morso delle sanzioni hanno costretto Mosca a rinunciare, almeno per ora, ai suoi propositi più bellicosi e anzi hanno spinto il Cremlino a fare aperture, per esempio sulla ripresa dei flussi sul gasdotto Yamal o perfino sul pagamento delle forniture in valute diverse dal rublo.
Non è scontato che le cose proseguano in questi termini e in ogni caso deve ancora passare molto tempo prima che possiamo considerarci al sicuro. Per esempio, l’inverno potrebbe irrigidirsi o colpire con una coda durante i mesi primaverili, vanificando parte dei risparmi finora conseguiti. Oppure la Cina potrebbe risvegliarsi e rimettere in tensione i mercati internazionali del GNL, che oggi scontano una domanda relativamente bassa. O, ancora, un’estate particolarmente calda e un autunno/inverno 2023/24 sotto le medie stagionali potrebbero rendere complesso lo sforzo di riempimento degli stoccaggi per l’anno venturo.
A ogni modo, quel che è certo è che potremo affrontare ciascuno di questi rischi in condizioni migliori di cui ci saremmo trovati se le cose fossero andate diversamente, e questo semplice fatto contribuisce a rafforzare le spinte ribassiste sui prezzi. Inoltre, più nel lungo termine, l’Europa è chiaramente sulla strada del pieno sganciamento dalla Russia: nei primi giorni dell’anno è entrato in esercizio il primo rigassificatore tedesco (nel porto di Wilhelmshaven sul Mare del Nord). Nei prossimi anni sono state ordinate ben venticinque unità galleggianti dai maggiori paesi europei; diverse, tra cui sperabilmente quelle programmate a Piombino e Ravenna, saranno pronte già nel corso del 2023. A questo si spera si aggiunga la ripresa della produzione nazionale di gas come indicato nel DL Aiuti quater, soprattutto, l’accelerazione nell’installazione delle fonti rinnovabili, che contribuirà a ridurre la dipendenza dal gas. E, naturalmente, i guadagni di efficienza energetica conseguenti agli investimenti intrapresi in questi mesi da famiglie e imprese.
Ci sono, in sintesi, buone ragioni per sperare che i prezzi non torneranno ai picchi osservati nel passato, o comunque non per periodi protratti di tempo. In tal caso non sapremo mai se il price cap avrebbe mantenuto le promesse o se, invece, avrebbe complicato le cose. Tutto sommato è meglio tenersi il dubbio che trovarsi costretti a riconoscere che gli esperti e la stessa Commissione europea, sempre dubbiosa sulla misura, avevano ragione, quando tentavano in ogni modo di dissuadere i policy-maker da un’esibizione di muscoli potenzialmente molto dannosa.



















