Il 5 dicembre sono partite le sanzioni europee sul petrolio russo, con una formula davvero originale, suggerita da non si sa quali fantasiosi consulenti. A febbraio dovrebbero partire anche le sanzioni alle importazioni dei prodotti petroliferi dalla Russia. Come funzionerà il tutto? Le navi di petrolio provenienti dalla Russia non possono essere comprate e quindi scaricate ai terminali di arrivo delle raffinerie europee. Non solo, le navi battenti bandiera europea non possono effettuare il trasporto e non possono assicurare il carico trasportato. Ciò a meno che il venditore russo accetti di vendere il suo carico di greggio al di sotto di un prezzo stabilito periodicamente dalla EU.
Ad esempio, in questo momento, il prezzo del Brent sul mercato internazionale è di circa 85 doll/bbl. La Comunità Europea ha fissato per il greggio russo il tetto di 60 doll/bbl. Quindi, se il venditore russo accetta di effettuare uno sconto di 25 doll/bbl può vendere il suo carico ad un raffinatore europeo, così come faceva in passato. Non solo, ma anche l’armatore della nave è autorizzato a trasportare il carico ed assicurarlo per il valore relativo al prezzo fissato dalla UE.
L’Europa è convinta che la Russia, non essendo in grado di trovare alternative al mercato europeo, sarà obbligata ad accettare di vendere al di sotto del prezzo di mercato, praticando uno sconto del 25-30%. Il che ridurrebbe le revenue finanziarie della Russia per circa 60 milioni di dollari al giorno. A fronte di questo piano non può non venire in mente il disegno strategico di quella Maria, popolana romana, che sognava la sua futura fortuna andando a vendere uova al mercato. Sappiamo la fine della storiella.
Cosa è presumibile che succeda nei prossimi mesi? E chi subirà le conseguenze maggiori di queste sanzioni? Sicuramente ci saranno sconvolgimenti dei flussi petroliferi a livello mondiale. I circa 2,5 milioni di barili/giorno (bbl/g) di greggio russo che venivano in Europa saranno inviati verso i mercati ad Est di Suez, dove andrà a sostituire greggi dei Paesi del Golfo e sarà venduto in linea con i prezzi internazionale o forse un po' di più, vista la miglior qualità rispetto ai greggi del Golfo Persico. Il trasporto di questi carichi sarà effettuato da navi battenti bandiere di paesi extra europei, possibilmente vecchie e che non necessitano di particolari assicurazioni. In ogni caso il carico potrebbe essere assicurato per un ammontare ridotto pari a quello fissato dall’EU. Fatta la legge trovato l’inganno.
Le conseguenze per la Russia sarebbero minime e legate soltanto ad un maggior lavoro di trading e di gestione amministrative e finanziaria. Le lettere di credito per la vendita dei carichi oggi sono in dollari e qui i russi potrebbero incontrare delle difficoltà. I compratori potrebbero non ottenere dalle banche internazionali il credito in dollari. E qui si aprirebbe la prima delle conseguenze negative che potrebbe introdurre effetti non voluti dagli USA e dalla Borsa di Londra. Il prezzo del petrolio russo potrebbe, all’inizio per necessità, essere quotato in altre valute diverse dal dollaro e potrebbe non far più riferimento al Brent come benchmark.
Se una mossa del genere fosse sostenuta da altri paesi del Golfo, si produrrebbe uno sconvolgimento del mercato petrolifero internazionale di segno opposto a quello che la rivoluzione della signora Thatcher volle ed impose fra il 1986 ed il 1988, quando l’OPEC fu messa al margine ed il Brent diventò il benchmark mondiale del petrolio, dando origine a quel gigantesco mercato finanziario (2-3 mila miliardi di doll/giorno) che è il Brent ICE. Non dimentichiamo che l’imposizione del Brent ha costituito una pesante umiliazione storica dei paesi OPEC del Golfo.
Vale la pena spingere lo sviluppo della crisi russo-ucraina lungo questi scenari? Oggi il mercato petrolifero non è stabile. Troppe tensioni si registrano fra i paesi produttori OPEC+ e non-OPEC. E, soprattutto, emergono incomprensioni crescenti fra USA ed alcuni paesi leader del Golfo. I sommovimenti che deriveranno dalla modifica dei flussi petroliferi, quelli russi verso Est e quelli del Golfo verso Ovest, finiranno con il penalizzare seriamente il mercato europeo non solo con un rialzo dei prezzi, ma anche con possibili restringimenti dell’offerta di prodotti petroliferi di qualità. Vale la pena ricordare che ormai da tempo si registra una diminuzione netta, a livello mondiale, della capacità di raffinazione operativa. A fronte della domanda mondiale di prodotti finiti di circa 100 milioni di bbl/g e di un’offerta in termini di petrolio greggio della stessa grandezza, la capacità di raffinazione è scesa a livelli leggermente superiori a 80 milioni di bbl/g. C’è quindi un corto di offerta, a livello mondiale, di prodotti petroliferi di circa 15-20 milioni di bbl/g che hanno innescato una competizione fra i vari mercati regionali per l’accaparramento dei prodotti. Ovviamente, vincono i mercati in grado di pagare di più, ma anche di organizzare un’efficace attività di trading per muovere i prodotti verso destinazioni privilegiate.
Di recente, il deficit strutturale degli USA in termini di prodotti finiti ha cominciato a manifestarsi sia con la mancanza di gasolio sia con una crescente difficoltà di immettere sul mercato benzine riformulate di alta qualità. Il richiamo di Biden alle compagnie petrolifere di investire maggiormente nel settore della raffinazione giunge in ritardo di due decenni ed appare poco convincente. Servono investimenti importanti e nessuno è disposto a rischiare i propri capitali in un settore che il mainstream politico ritiene ormai “morto”, come tutte le fonti fossili. La crisi russo-ucraina sta facendo da acceleratore della crisi globale degli approvvigionamenti petroliferi. Da almeno due decenni si è ripetuto che non serviva investire in queste attività. Bastava che la raffinazione sopravvivesse fino all’arrivo della mitica “conversione energetica”. Purtroppo, tutte le date finora annunciate per questo evento “escatologico” rischiano di essere puntualmente spostate in avanti nel tempo, mentre il tracollo del settore industriale della raffinazione si avvicina con una accelerazione crescente. In Italia, gli effetti di queste sanzioni hanno rischiato e rischiano ancora di colpirci duramente. Stiamo ancora vivendo la crisi della raffineria ISAB di Priolo, che rischia di fermare le attività per una errata interpretazione delle sanzioni stesse. Lukoil, proprietaria degli impianti di ISAB, non è soggetta ad alcuna sanzione ed ha attività sia in Europa che negli USA. Per comprare il petrolio da raffinare le occorre, per ogni singolo carico, una lettera di credito (in dollari) rilasciata da una banca accettata dal venditore. Per operare in dollari occorre l’autorizzazione dell’OLAC (Office of Foreign Asset Control) americano, che, evidentemente, non gradiva che queste lettere fossero rilasciate a favore di Lukoil. Il fatto che il fondo americano Crossbridge Energy fosse interessato a comprare (a due soldi, sembra) la raffineria da Lukoil, ha fatto nascere il dubbio che dietro il rifiuto a concedere le lettere di credito ci fosse anche un vistoso conflitto di interesse.
Mentre il governo Draghi non ha mosso un dito in questa vicenda, il nuovo governo sembra aver individuato una soluzione temporanea per consentire a Lukoil di poter acquistare il greggio sui mercati internazionali e quindi di poter continuare le attività di raffinazione e di vendita dei prodotti petroliferi sui mercati italiani ed internazionali. Si dovrà nominare un amministratore fiduciario che costituirà una sorta di autorità di interfaccia fra la Lukoil (che continuerà a gestire ed operare la raffineria) e lo Stato italiano, che sarà l’entità che comprerà il greggio dai paesi produttori. Lo Stato, per definizione, godrà di “open credit” e non avrà bisogno di emettere lettera di credito a favore del venditore.
Per fortuna – è notizia dell’ultima ora – la solidità industriale ed imprenditoriale di Lukoil ha creato le condizioni perché possa comprare il greggio in modo autonomo potendo contare sulla propria grande liquidità e sul credito di banche asiatiche.
Rimane sul tappeto il problema del futuro della raffineria, che continua a far gola al fondo americano, che sembra volerla acquistare per cederla poi (guadagnandoci) a società di trading come Vitol o Trafigura, due società che penserebbero soltanto a disporre dei prodotti finiti della raffineria per esportarli sul mercato americano, privando l’Italia di almeno il 20% dei suoi rifornimenti. Ovviamente, le due società di trading non investirebbero un centesimo nel potenziare gli impianti della raffineria e la gestirebbero, sfruttandola al massimo, fino alla completa chiusura degli impianti. L’ISAB si aggiungerebbe alla lista delle raffinerie italiane che sono state o sono in procinto di essere chiuse rendendo tragico il problema dell’approvvigionamento del mercato italiano. E’ difficile sperarlo, ma sarebbe ora che il governo italiano si occupasse del futuro del settore industriale della raffinazione in modo serio, per evitare i disastri incombenti.
Abbiamo vissuto un periodo di grande confusione e messaggi fuorvianti sul problema dell’approvvigionamento e del prezzo del gas. Non sono stati affrontati i problemi nazionali, mandando la palla in tribuna attraverso l’invocazione del tetto europeo al prezzo del gas. Era una boutade e tale si è rivelata, alla fine. Con il petrolio, è più difficile far emergere la drammatica criticità del sistema di approvvigionamento italiano. Il motto sembra essere “fin che la barca va”. La capacità di raffinazione è diminuita fortemente e dipendiamo sempre più dalle importazioni occasionali di prodotti petroliferi, che non forniscono alcuna riassicurazione per la loro continuità e per il livello dei prezzi. Purtroppo, poiché parliamo di fonti fossili, il problema non è di moda e non se ne parla. Magari protestiamo per i prezzi alti alla stazione di servizio, ma declassiamo il tutto alla decisione di tagliare le accise. Il problema industriale e strategico che sta alla base è pressappoco sconosciuto e sembra non interessare nessuno. Ci sveglieremo, forse, se e quando, andando all’aeroporto, vedremo il volo cancellato per mancanza di jet fuel.