Quando si parla di transizione energetica e di nuovi “vettori” di energia non si può fare a meno di menzionare l’idrogeno, che riveste un ruolo di primo piano sia a livello nazionale nel PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) sia a livello europeo con la Strategia Europea per l’Idrogeno.

Il contributo di questo vettore energetico, per la produzione di energia e per l’ambito trasporti, appare infatti fondamentale per raggiungere l’obiettivo di decarbonizzazione al 2050.

Certo l’enfasi principale, quando si parla di idrogeno, è riservata al cosiddetto idrogeno “verde”, ossia quello che si ottiene “accoppiando” un elettrolizzatore ad un impianto di produzione di energia da fonte rinnovabile, in forte contrapposizione rispetto all’idrogeno “marrone”, derivante dalla gassificazione del carbone, e a quello “grigio”, che si ottiene con il processo di steam reforming dal gas naturale, che tuttavia costituiscono la stragrande maggioranza (oltre il 99% nel 2021) dell’idrogeno prodotto oggi.

Certo l’idrogeno “verde” ha delle indubbie qualità, prima fra tutte la completa assenza di emissioni (giacché per la sua produzione si utilizzano rinnovabili), ma non è scevro da difetti, come ad esempio il costo delle tecnologie necessarie per l’elettrolisi, che rende la sua produzione al kg dalle 2 alle 4 volte superiore rispetto a quello “marrone” o “grigio”, e la ridottissima capacità attualmente installata. Secondo le analisi del nostro ultimo Hydrogen Innovation Report, inoltre, per arrivare a soddisfare il fabbisogno di 5 GW di elettrolizzatori al 2030 (quelli previsti dalle linee guida del MiSE in merito alla strategia sull’idrogeno italiano) sarebbero necessari almeno 7,5 GW di installazioni da rinnovabili aggiuntive… e considerando quanto siamo purtroppo in ritardo sulla tabella di marcia delle rinnovabili, con installazioni che non riescono a staccarsi da 1 GW all’anno, appare assai difficile centrare l’obiettivo.

Esiste una via di mezzo? Qualche soluzione che possa aiutarci ad introdurre effettivamente l’idrogeno nel nostro mix energetico senza attendere la generazione “verde”?

La risposta è affermativa e prevede un ruolo potenzialmente rilevante per il gas naturale. Tra i vari “colori” dell’idrogeno, vi è infatti anche il “blu”, che fa riferimento al processo di “accoppiamento” ad un impianto di steam reforming da metano di un sistema di cattura della CO2 (CCUS – Carbon Capture Utilization and Storage). I vantaggi, immediati, sono diversi Innanzitutto si potrebbe sfruttare  una tecnologia consolidata sul mercato (quella appunto di steam reforming) e con una base installata di una qualche significatività, riducendo di oltre il 50% le emissioni rispetto all’idrogeno “grigio”. Evidentemente il costo aggiuntivo della cattura della CO2 deve essere considerato, e questo porta ad un aggravio di oltre il 50% sul costo al kg di idrogeno, con un vantaggio tuttavia ancora significativo rispetto alla versione “verde”.

Ma vale davvero la pena? Non conviene attendere che sia pronto l’idrogeno “verde”?

La risposta qui si fa più articolata, ma a mio parere, una ragione per utilizzare l’idrogeno “blu” (ed il gas naturale come feedstock per la sua produzione) in questa fase di transizione c’è ed è quella di sviluppare la filiera dell’idrogeno, proprio a partire dagli utilizzatori. È in corso un dibattito sulla possibilità di impiegare l’idrogeno in quei settori hard-to-abate, come la chimica, il cemento, l’acciaio, la carta, la ceramica e il vetro, ossia laddove è più difficile altrimenti ridurre l’impronta carbonica. Vi è poi lo sviluppo di configurazioni – cosiddette hydrogen valley – dove alla produzione di idrogeno si associa la possibilità di trasporto in un contesto di impiego diffuso. In tutti questi casi è necessario mettere a punto le tecnologie per l’integrazione dell’idrogeno come vettore di energia nei processi produttivi, investire in ricerca e innovazione, sviluppare una rete di attori per la logistica e lo stoccaggio, insomma sviluppare intere filiere industriali – e locali – per permettere l’effettivo sfruttamento dell’idrogeno. Queste filiere “a valle” possono e devono comunque essere sviluppate, indipendentemente dal “colore” dell’idrogeno, e possono saldarsi, una volta create, con le filiere “a monte” di produzione “verde”, quando disponibili. Attendere queste ultime prima di partire concretamente con l’impiego dell’idrogeno come vettore energetico nel nostro Paese potrebbe essere un errore, da evitare.

Una soluzione allora “solo” di transizione? Anche qui la risposta è, a mio parere, affermativa. E le ragioni sono due. La prima è legata alla normativa, che impone delle soglie alle emissioni di CO2 per la produzione di idrogeno comunque inferiori a quanto oggi permesso dalle tecnologie dell’idrogeno “blu”. Nel lungo termine, quindi, non è possibile immaginare di sfruttare questi processi di produzione dell’idrogeno. La seconda, anch’essa legata alla normativa ma soprattutto al “buon senso”, è che in un sistema decarbonizzato di produzione dell’energia, utilizzare il gas naturale come “input” per la produzione di idrogeno contravverrebbe alla logica. È, invece, naturale immaginare che la crescita di scala della produzione di idrogeno “verde” consenta anche di risolvere gli attuali problemi di costo legati alla tecnologia dell’elettrolisi. È dunque l’idrogeno “blu” una soluzione di transizione, ma in quanto tale è altrettanto importante che ci si muova rapidamente per perseguirla, perché come ha detto di recente la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen il gas è una fonte strategica per la transizione energetica europea … anche nella accezione che la vede al servizio della produzione di idrogeno.