La transizione energetica è ormai una questione prioritaria nelle agende politiche ed economiche dei paesi dell’Unione. I nuovi obiettivi ambientali europei fissati nel pacchetto “Fit-for-55” sono molto ambiziosi (la UE intende ridurre già entro il 2030 le emissioni di gas serra di almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990) e richiedono la messa in campo con urgenza di ogni iniziativa possibile per contribuire da subito al contenimento delle emissioni.

Per dare l’idea di quanto il nuovo target sia sfidante, basti pensare che l’Europa è chiamata a ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra (di seguito anche “GHG”) di circa 1.400 Mton CO2 rispetto ai livelli emissivi del 2019, quando negli ultimi 30 anni è stata in grado di abbattere i GHG di sole 1.260 Mton CO2. Per l’Italia, significa abbattere entro meno di un decennio le emissioni annuali di CO2 di circa 160 MtCO2eq (portando il totale emesso a circa 255 MtCO2eq, rispetto alle 418 MtCO2eq del 2019), ambizione ben più alta di quella, già sfidante, prevista dal PNIEC, e soprattutto molto superiore rispetto all’abbattimento storicamente conseguito negli ultimi 30 anni, in cui l’Italia ha ridotto le emissioni annuali di appena 100 Mton CO2eq.

 

Questo target sempre più ambizioso sta facendo emergere una “domanda di decarbonizzazione” che, per dimensione e caratteristiche, è diversa, e molto più difficile da gestire, rispetto a quella con cui ci siamo confrontati fino ad ora. L’entità del risparmio emissivo richiesto impone infatti di dover da subito aggredire consumi per i quali: i) l’elettrificazione ad oggi non è una soluzione tecnicamente e/o economicamente praticabile (c.d settore hard to abate); ii) è necessario effettuare interventi presso i singoli clienti, che devono quindi svolgere un ruolo “attivo” nel processo di abbattimento delle proprie emissioni; iii) la sfida della decarbonizzazione ha la potenzialità di rivoluzionare livello e struttura di costo delle attività economiche interessate, con impatti sulla competitività del sistema produttivo nazionale. Soddisfare questa “domanda di decarbonizzazione” impone, quindi, di individuare soluzioni di abbattimento delle emissioni ulteriori rispetto al binomio elettrificazione/rinnovabili, e tali da minimizzare i costi della transizione energetica e non scaricare oneri ingiustificati sulle imprese esposte alla competizione internazionale.

 

La categoria degli hard to abate, fondamentale per il sistema produttivo nazionale, è la più complessa da decarbonizzare, dato che ad essa appartengono utenti con caratteristiche ed esigenze diversificate, e non è possibile ovviare alle difficoltà della elettrificazione ricorrendo a una tecnologia alternativa univoca. Vi sono diverse possibili soluzioni di decarbonizzazione e il merit order economico delle opzioni praticabili può variare significativamente a livello di singola azienda, in funzione della attività economica interessata, delle dimensioni dell’impianto, della sua collocazione geografica, etc. Ad esempio, il ricorso alla cattura e stoccaggio delle emissioni (“CCS”) è la soluzione più efficiente per impianti produttivi in cui si concentrano grandi quantità di emissioni, data l’incidenza dei costi fissi legata alla realizzazione di impianti di cattura. Diverso il caso per i tanti distretti geograficamente localizzati, ma con molti impianti industriali di piccole dimensioni; per questi l’idrogeno è verosimilmente l’opzione di decarbonizzazione più indicata, in quanto si può beneficiare di economie di scala centralizzandone la produzione. Queste valutazioni possono comunque differenziarsi anche in base ad altre variabili quali, a titolo esemplificativo, la prossimità o la lontananza rispetto a siti di stoccaggio della CO2, la possibilità di accesso alle infrastrutture di trasporto di idrogeno e/o CO2, la localizzazione degli impianti in aree caratterizzate da elevata disponibilità di energia elettrica a basso costo per produzione di idrogeno verde, etc.

La decarbonizzazione degli hard to abate industriali è quindi un esercizio complesso da pianificare e realizzare per le numerose variabili tecnologiche e di mercato, attuali e prospettiche, che caso per caso devono essere considerate.  È poi un’operazione rispetto alla quale non sono ammessi errori, perché a rischio vi è la competitività del tessuto produttivo nazionale.

 

Come realizzare tutto questo nella pratica? Sono due i protagonisti chiave di una transizione energetica efficiente e sostenibile per le attività hard to abate.

Il primo è sicuramente il decisore pubblico che deve garantire: i) pragmatici indirizzi di policy che valorizzino le specificità del sistema Italia, ii) il necessario livello di pianificazione di sviluppo degli investimenti infrastrutturali, nonché iii) coerenti programmi di incentivazione delle soluzioni di decarbonizzazione.

Più precisamente, rispetto alle politiche energetiche e ambientali, le stesse devono fare leva sulle peculiarità e i punti di forza del sistema energetico italiano, così come d’altra parte stanno già facendo gli altri Stati dell’Unione. Questo significa non allinearsi “passivamente” alle soluzioni di decarbonizzazione promosse in altri contesti nazionali, ma individuare e perseguire quelle che ci consentono di minimizzare i costi, facendo leva sulle caratteristiche specifiche del nostro territorio e sull’utilizzo ottimizzato degli asset infrastrutturali esistenti. Ad esempio, l’Italia è nelle condizioni (come pochi altri paesi europei, UK e Olanda per citare i principali) di utilizzare - grazie alla presenza di giacimenti depleti di gas - soluzioni di cattura e stoccaggio della CO2, decisamente oggi più efficienti in termini economici anche per la produzione su scala di idrogeno decarbonizzato. A titolo esemplificativo, il Levelized Cost of Hydrogen (LCOH) per un impianto di produzione di idrogeno blu – associato cioè a  cattura e stoccaggio della CO2 prodotta da uno Steam Methane Reformer – varia tra 3 e 6 €/kgH2 in presenza di prezzi del gas tra 30 e 90 €/MWh; i corrispondenti valori per l’idrogeno prodotto da elettrolisi alimentata ad energia elettrica rinnovabile (ipotesi di elettrolizzatore PEM con 3500 ore di funzionamento) oggi oscillano tra 9 e 20 €/kgH2 in presenza di prezzi dell’energia elettrica tra 60 e 250 €/MWh.

 

Se l’Italia non sfruttasse questa potenzialità di sviluppo di prodotti low-carbon rischierebbe di trovarsi in una situazione di svantaggio competitivo rispetto a paesi che, grazie a un’elevata disponibilità di rinnovabili elettriche, sono in grado di ottenere già nel breve periodo produzioni di idrogeno verde a costi concorrenziali.

 

Per poter sfruttare appieno le proprie specificità e garantire una decarbonizzazione efficiente degli hard to abate, il sistema deve anche promuovere un forte coordinamento degli investimenti infrastrutturali necessari e mettere in piedi schemi di incentivo delle soluzioni di decarbonizzazione che, proprio in ragione della molteplicità delle soluzioni individuabili, devono caratterizzarsi per essere flessibili e output-based. Schemi che non supportino aprioristicamente lo sviluppo di specifiche tecnologie, ma che premino il risparmio emissivo complessivo ottenibile dai diversi progetti, da “selezionare” anche in ragione del loro costo incrementale.

 

Il secondo protagonista di una decarbonizzazione efficiente per gli hard to abate è quello che potremmo chiamare il “provider dei servizi di decarbonizzazione”. È un nuovo soggetto il cui ruolo è quello di supportare i clienti nella individuazione e realizzazione del mix di soluzioni più conveniente sulla base delle specifiche caratteristiche di ciascun utente. D’altra parte, poiché le soluzioni di decarbonizzazione più efficienti ed efficaci possono dipendere da scelte condivise da molteplici clienti industriali, anche in ragione della loro prossimità territoriale, il “provider dei servizi di decarbonizzazione” deve anche svolgere un ruolo di “pooling” e di coordinamento delle scelte, eventualmente realizzando direttamente gli investimenti e offrendo all’insieme dei clienti prodotti decarbonizzati a condizioni predefinite sulla base di contratti long term.

 

Gli operatori meglio posizionati per interpretare il ruolo di provider dei servizi di decarbonizzazione sono i grandi player energetici, che hanno nativamente accesso a quella molteplicità di tecnologie e soluzioni necessarie per vincere la sfida di una decarbonizzazione complessa. Le infrastrutture e il know-how tecnico-economico di cui storicamente essi dispongono (trasversali su settori tra loro complementari come il power, il gas, la raffinazione, l’upstream oil&gas, ecc…) sono infatti gli “ingredienti” ideali a partire dai quali sviluppare quella pluralità di prodotti low-carbon indispensabile per rispondere alle esigenze specifiche delle singole tipologie di consumatori “hard to abate”. Soluzioni come la cattura e lo stoccaggio della CO2, la produzione di idrogeno decarbonizzato (rinnovabile o low-carbon), di biogas e biofuels sono perciò tecnologie che vanno sviluppate in parallelo e non già in competizione con gli investimenti in fonti rinnovabili elettriche, poiché per raggiungere gli obiettivi di abbattimento (efficacia) e per farlo al minor costo possibile (efficienza)  occorre disporre del più ampio ventaglio possibile di tecnologie, fra cui identificare di volta in volta l’opzione più efficiente per la singola tipologia di consumatore.

 

Con questo modello è realmente possibile costruire un percorso di transizione energetica sostenibile, che ottenga i risultati ambientali desiderati senza che la competitività del Paese ne risulti compromessa. “Mettere in parallelo” diverse tecnologie di decarbonizzazione consente infatti di accelerare l’abbattimento delle emissioni (massimizzando l’efficacia), mentre implementare per ciascun utente/gruppo di utenti la soluzione che rispetta il “merit order” economico delle opzioni disponibili permette di ridurre al minimo i costi (massimizzando quindi l’efficienza). E questo a tutto vantaggio sia del singolo consumatore, sia della collettività in generale.

 


Si ringraziano il dott. Andrea Di Stefano e la dott.ssa Ilaria Palombini per il prezioso contributo.