Sviluppo sostenibile è una delle espressioni oggi più usate e che raccolgono maggiore consenso. È anche solitamente riconosciuto che sviluppo sostenibile significa cercare di coniugare tre aspetti: il perseguimento del benessere economico, la protezione dell’ambiente e l’equità intesa come progresso sociale. Mettere insieme tre obiettivi diversi non è facile perché raramente le azioni che si intraprendono consentono un miglioramento in tutte le tre direzioni. Più spesso occorre operare una mediazione, cioè rinunciare a qualcosa in una direzione per guadagnare in un’altra. Trattandosi di scelte molto spesso collettive, il luogo della mediazione è la politica che però, come è noto, è anche il terreno dove le opinioni divergono perché ciascuno cerca di spostare le decisioni verso i propri interessi o le proprie convinzioni. Difficilmente però si riescono a prendere e attuare decisioni a impatto rilevante senza il consenso sociale, ovvero il consenso di una larga parte dei cittadini.
Questa premessa ci pare necessaria per mettere in evidenza che quando si passa dallo “sviluppo sostenibile” alla “sostenibilità” non si stanno usando due sinonimi in quanto nell’uso corrente si tende ad assimilare la sostenibilità con la sostenibilità ambientale o quanto meno a fare della protezione ambientale la preoccupazione dominante. Recentemente la politica, specie quella europea, sembra essersi orientata decisamente in questa direzione. Nel comunicato sullo European Green Deal del dicembre 2019 la Commissione così lo descriveva: “Il Green Deal è la nuova strategia di sviluppo dell’UE che mira a porre l’Europa sulla traiettoria di sviluppo di trasformazione verso una società clima-neutrale, giusta e prospera, con un’economia moderna, efficiente e competitiva”. La ricerca della neutralità climatica è dunque l’obiettivo dominante della politica UE. Per accrescerne il consenso verso tale politica la Commissione affermava che essa comportava vantaggi anche per la crescita dell’economia e del benessere sociale e tale convinzione era ribadita nelle conclusioni del Consiglio europeo con cui il Green Deal veniva approvato: “La transizione verso la neutralità climatica apporterà significative opportunità, come il potenziale di crescita economica, nuovi modelli di business e mercati, nuovi posti di lavoro e sviluppo tecnologico”.
Sulla base di queste dichiarazioni e di una visione ottimistica tendente a dimenticare che se si stressa un obiettivo è molto probabile che si debba pagare un prezzo in termini degli altri, l’UE ha dunque deciso che l’obiettivo primario fosse la neutralità climatica da raggiungere mediante la “net-zero emission” al 2050. La conseguenza più immediata e concreta della nuova strategia è stata la revisione dell’obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2030 innalzato al 55% dal 40% precedentemente deciso. Questo valore è stato il risultato di un negoziato tra Commissione, Consiglio e Parlamento europeo. È evidente che se si bandisce un “concorso di bontà” ci sarà sempre un partecipante che tende a chiedere qualcosa di più e, in questo caso, è stato il Parlamento europeo a chiedere che si “facesse di più” proponendo anche di andare oltre il 55%. Sarà possibile raggiungere questo obiettivo? Quanto costerà? Chi pagherà? Quale impatto avrà sulla riduzione globale di emissioni? Chi si azzarda a porre queste domande è facilmente considerato un irresponsabile che non si accorge che i cambiamenti climatici sono la più grande catastrofe che l’umanità ha di fronte o che non vuole accettare il consenso scientifico.
A nostro parere non si tratta né di essere irresponsabili né “negazionisti”, ma di affrontare il problema cercando di ottenere il massimo risultato realisticamente ottenibile a condizioni date e non con proclami basati sui propri desideri.
Sarà possibile ridurre le emissioni di gas serra nell’UE del 55% al 2030? La risposta data recentemente dall’Agenzia europea per l’ambiente (EEA) è: “reachable with more efforts and policies”. Affermazione che, provenendo da un’Agenzia ambientale, può essere tradotta come: “non semplice da farsi”. Le ragioni possono essere ricavate dall’analisi dei risultati per l’obiettivo UE di riduzione del 20% per il 2020 suddiviso, come è noto, tra un obiettivo ETS-21% vs 2005) e un obiettivo Effort-Sharing Decision (-10% vs 2005) diverso per ogni Paese. L’obiettivo globale è stato largamente superato (-31% anziché -20%), ma non bisogna dimenticare che nel solo 2020 le emissioni sono scese del 10% per l’arresto di molte attività causato dal COVID-19. Senza “l’aiuto della pandemia” i risultati sarebbero stati molto meno brillanti ed anzi, secondo le stime dell’EEA, ben sei paesi (tra i quali spicca la Germania) non hanno comunque raggiunto il proprio obiettivo nei settori ESG nel 2020. Le ragioni di questa difficoltà sono piuttosto facili da indicare: è molto difficile ridurre i consumi energetici (senza il COVID molto probabilmente non sarebbe stato conseguito l’obiettivo UE di “efficienza energetica” per il 2020) e anche la crescita delle rinnovabili, da tutti giustamente auspicata, non è così semplice da attuare nelle dimensioni necessarie (basti pensare ai 70-75 GW da FER da installare in Italia entro il 2030 secondo la bozza di Piano di Transizione Ecologica).
Quanto costerà questa trasformazione? Non è possibile dirlo neppure approssimativamente senza definire il percorso e fare alcune scommesse sull’evoluzione di costi. Quello che sappiamo è che il discorso ufficiale tende a mettere in primo piano la riduzione dei costi unitari delle FER come esempio di un processo senza fine e che si può estendere ad altre tecnologie (in primis alla produzione e all’impiego dell’idrogeno). Raramente vengono messi in evidenza i costi per lo stoccaggio dell’energia prodotta da fonti intermittenti, i costi delle infrastrutture di trasporto e la tendenza ad andare verso risorse più costose man mano che il loro sfruttamento procede. Non pare dunque corretto far credere che siamo di fronte a un “pasto gratuito”, ma caso mai che è un pasto che ha un costo giustificato dai benefici che si vogliono ottenere.
Quanto alla domanda su chi pagherà per la trasformazione del settore energetico quello che è stato mostrato da molti studi è che la popolazione più povera sarà maggiormente impattata. La ragione è semplice: il peso della bolletta energetica è più alto per chi ha un basso reddito perché certamente l’elasticità della domanda è più bassa per chi consuma poco. Anche per questa ragione non è facile costruire il necessario consenso su una transizione che sta a cuore a molti (individui e paesi) che hanno un alto reddito.
Il tema del consenso e del reddito apre la porta a quello che pare il più grande limite dell’attuale politica di zero-emission dell’UE: l’autoreferenzialità. Nell’UE-27 nel 2020 le emissioni totali di gas a effetto serra (GES) sono state di 3,25 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2 (Gt CO2-e). A livello mondiale nel 2018 le emissioni di GES sono state, secondo la World Bank, di 45,87 Gt CO2-e. Supponendo che non siano cresciute nei due anni successivi (ipotesi ottimistica) l’UE rappresenta il 7% delle emissioni mondiali. Per dare un’idea della scarsa rilevanza dell’azione dell’UE sulle emissioni globali basti pensare che, supponendo che l’UE consegua l’obiettivo di ridurre del 55% le sue emissioni al 2030 (rispetto al 1990), le missioni di GES diminuirebbero di circa 1,1 Gt CO2-e, ma se nel medesimo periodo l’India, proseguendo il suo attuale ritmo di sviluppo, raggiungesse un livello di emissioni pro-capite pari alla metà di quello attuale dell’UE, le emissioni indiane crescerebbero di circa 2,7 Gt CO2-eq.
La constatazione della scarsa rilevanza del comportamento europeo sulle emissioni globali non va certo intesa come un incoraggiamento a diminuire l’impegno dell’UE a ridurre le proprie emissioni, ma a guardare il problema in termini più efficienti ed efficaci.
Se l’UE vuole davvero ridurre le emissioni totali deve pensare su scala globale. Non ci sono solo importanti emettitori come la Cina (dal 2005 primo emettitore mondiale) o l’India, ci sono molti altri Paesi o interi continenti (come l’Africa) che, se trovassero la via dello sviluppo e la percorressero per qualche decennio, potrebbero aumentare le loro emissioni molto di più di quanto l’Europa possa ridurle. Né si può pensare che lo sviluppo di questi Paesi possa basarsi solo sull’uso delle fonti rinnovabili pur essendo tutti favorevoli alla massima crescita possibile di queste fonti. L’ideologia “fossile uguale cattivo” per qualche decennio non è del tutto praticabile in Europa ed è impossibile da suggerire a chi si voglia sviluppare partendo da livelli molto bassi. Ecco perché all’UE (e a tutti coloro che sono giustamente preoccupati dell’aumento delle emissioni) converrebbe agire per favorire il trasferimento di tecnologie efficienti e in grado di sviluppare la diffusione delle fonti rinnovabili, ma nel contempo anche sviluppare nuove tecnologie a cominciare da quelle in grado di catturare e utilizzare o stoccare la CO2 e favorire l’impiego del gas invece del carbone (a titolo esemplificativo, sostituendo tutta la produzione elettrica da carbone con quella a gas si potrebbero risparmiare le emissioni di almeno 7 Gt CO2-e)