Recentemente, in una manifestazione di giovani a Milano in coincidenza con l’avvio della grande conferenza sul clima di Glasgow, Cop 26, si sono sentiti slogan come “stop greenwashing”, “rise up for climate justice” o il più creativo “o la borsa o la vita”. Slogan forti, efficaci, in parte anche giusti, anche se inevitabilmente un po’ ingenui. Gli slogan, d’altra parte, sono necessariamente grezzi e sintetici e l’ultimo citato se la prendeva con il simbolo dell’economia capitalista di mercato, appunto la borsa, con i manifestanti accampati proprio di fronte alla Borsa di Milano nella ben nota Piazza degli Affari.
Erano e sono i nostri figli e nipoti, in compagnia della immancabile Greta, che a sua volta accendeva gli animi dichiarando urbi et orbi che sulla crisi climatica gli Stati “non fanno niente”. Primi ministri e media condiscendenti non hanno contraddetto questa dichiarazione, forte, efficace ma anche piuttosto infondata, dal momento che il mondo intero è crescentemente mobilitato a contrastare il riscaldamento globale con una costosissima, per quanto tardiva, decarbonizzazione. Resta che, in ogni caso, Greta e i milioni di giovani che ovunque a lei si ispirano hanno mille ragioni per manifestare la propria inquietudine, sia pure solo a suon di slogan. Programmi e azioni, infatti, non competono al loro mondo bensì a quello degli adulti.
Questa inquietudine riguarda il futuro, il loro e quello del pianeta dove vivono, dove tutti viviamo. Occorre posizionarsi correttamente e vestire i panni degli adolescenti e dei millennial iperconnessi di oggi per coglierne il punto di vista, che può essere il punto di partenza per altri punti di vista più realistici e informati, e certamente più carichi di responsabilità.
Le nuove generazioni sono oggi di fronte a un mondo adulto che dice loro che entro pochi anni l’equilibrio climatico del pianeta potrebbe cambiare in modo irreversibile, e decisamente in peggio. Che migliaia di specie animali si stanno estinguendo. Che l’aumento delle temperature genererà l’innalzamento del livello dei mari causando inondazioni catastrofiche che manderanno sottacqua le città costiere da Venezia a New York alle Maldive. Che parlare di sesta estinzione di massa, causata dalle attività umane, potrebbe non essere un’esagerazione da libro di fantascienza.
E ancora: che la micidiale pandemia che stiamo vivendo e che ha finora provocato 5 milioni di vittime, creando nei giovani nuovi timori e talvolta disagi psicologici, avrà con ogni probabilità regolari repliche in futuro. Che le crisi economiche e finanziarie sono e restano la norma nel quadro di un’economia capitalistica di mercato. Che l’aumento delle diseguaglianze di reddito tenderà più facilmente ad accentuarsi che a ridursi. Che il lavoro potrà scarseggiare in funzione di avanzamenti tecnologici sostitutivi o, quantomeno, a deteriorarsi in qualità. Che l’istruzione e la formazione professionale non riescono a tenere il passo. Che gli squilibri geopolitici si aggraveranno in un quadro di confronto planetario globale tra superpotenze, con contraccolpi regionali cui si potranno legare nuove e antiche forme di terrorismo. Che la sicurezza informatica è una chimera. E che la violenza in rete, cui anche i giovani partecipano spesso inconsapevolmente, non si potrà né neutralizzare né contenere.
Basta così. Si potrebbe andare oltre nel cercare di vestire i panni di un adolescente di oggi ma il quadro descritto non ha funzione di analisi ma solo di esempio. Le nuove generazioni, battezzate millenial, generazione Z, K o altro, hanno di fronte un quadro complesso e poco rassicurante di cui attribuiscono inevitabilmente la responsabilità alle generazioni oggi in controllo o, se vogliamo, al potere. In una società che ovunque nel mondo, tranne poche indesiderabili eccezioni, si basa sulla democrazia in forme più o meno libere e sull’economia fondata sul funzionamento, anche qui più o meno libero, dei mercati.
E non c’è dubbio che le risposte vadano date, i programmi perfezionati, gli obiettivi raggiunti con urgenza.
Sotto il profilo climatico questa urgenza è massima, se dobbiamo dare (come dobbiamo) fiducia agli scienziati dell’IPCC che ormai da tempo ammoniscono il mondo intero sul progressivo avvicinarsi di una prossima deadline, superata la quale si produrranno cambiamenti irreversibili. Molte sono le misure da adottare, ma in testa a tutte c’è l’accelerazione dei programmi di transizione energetica da fonti fossili a fonti rinnovabili. Una “mission impossible” se pensiamo che la decarbonizzazione dovrebbe avvenire in pochissimi anni, forse dieci, tuttalpiù una ventina. Nell’ultimo rapporto IPCC, le cosiddette emissioni cumulative storiche di gas serra, “fonte della crisi climatica che il mondo deve affrontare oggi”, sono in massima parte riconducibili ai Paesi sviluppati. Dunque, la parte preponderante dello sforzo dovrà avvenire qui. In questo senso, un segnale importante arriva certamente dall’Unione Europea, che a settembre 2020 ha fissato come obiettivo al 2030 una riduzione delle emissioni pari al 55% rispetto ai livelli del 1990, alzando l’asticella rispetto al 40% fissato in precedenza. Obiettivo che si è prefissata raggiungere attraverso piani ambiziosi come il Fit for 55 Package, lanciato a luglio 2021, e puntando a una forte spinta per il rilancio economico basato sulle tecnologie green (Next Generation EU).
Ma non basta. A livello globale, gli impegni assunti in occasione di COP 26 sono certamente ancora insufficienti e in primo piano (o sul banco degli accusati) restano Paesi come Cina, Russia, India e Stati Uniti, assunto che per i Paesi in sviluppo sarà comunque drammatico avvicinarsi ai target richiesti.
Ancora una volta, le nuove generazioni pretendono una accelerazione nei progetti di cambiamento e, nella loro visione che mescola timori, speranze e ingenuità, chiedono che si realizzi, quasi con una bacchetta magica, un cambiamento sistemico. Ovviamente, facile a dirsi, un incubo a farsi. Come scrive Alessandro Lanza nell’ultimo rapporto Macrotrends di Harvard Business Review Italia, un tale cambio sistemico «passa forzatamente da elementi fondanti quali ad esempio la capacità di investire massivamente nella decarbonizzazione dei sistemi energetici, soprattutto con investimenti pubblici, per la realizzazione di nuove infrastrutture energetiche e per facilitare lo sviluppo di tecnologie green disruptive per la rimozione dei gas-serra dall’atmosfera, come ad esempio la cattura e lo stoccaggio delle emissioni carboniche e, più in generale, per il cosiddetto Carbon Dioxide Removal».
Decarbonizzazione che, per l’appunto, non può che realizzarsi a partire dal sistema energetico, punto di partenza e di arrivo della transizione. «L’impatto che un sistema energetico globale a basso o nullo consumo di fonti fossili avrebbe sugli altri settori della nostra società, data la loro interconnessione, è tanto positivo quanto difficilmente quantificabile, considerate la reazione a cascata che tale transizione avrebbe su tutti i vettori socioeconomici ad esso collegati. I processi che portano a questo passaggio sono innumerevoli e parzialmente sconosciuti».
Ma questa è la realtà da affrontare e i prossimi anni e decenni imporranno cambiamenti che non possiamo oggi neppure immaginare. Ricerca, sviluppo, innovazione e tecnologia contribuiranno al cambiamento e forse riusciranno a disinnescare la bomba a tempo che abbiamo acceso per decenni di sottovalutazioni e incuria. È una speranza con molti elementi di fondatezza. Almeno, questo è quello che dobbiamo promettere ai nostri figli e nipoti.