Il futuro del lavoro era già in arrivo quando Covid-19 ha premuto il tasto fast-forward. Tra i tanti cambiamenti che ci hanno travolto, quelli che riguardano direttamente o che influenzano le dinamiche relazionali, oltre a essere i più evidenti, hanno implicazioni importanti e durature per individui e organizzazioni.
La destrutturazione dei tempi e luoghi di lavoro era un trend già in atto, ma quello che ci aspettavamo avvenisse gradualmente, dandoci il tempo per adattarci, si è verificato improvvisamente. Il collassamento dei tempi ha reso evidenti alcuni aspetti che forse non avremmo colto altrettanto bene se diluiti negli anni. Il distanziamento imprevisto, repentino e forzato, per esempio, ci ha fatto capire molto chiaramente due cose, solo in apparente contrasto l’una con l’altra.
La prima è che molti dei compiti che svolgiamo non richiedono di recarsi in ufficio e che alcune riunioni non beneficiano dalla presenza dei partecipanti nella stessa stanza. Abbiamo così dovuto ammettere che molti treni, aerei e spostamenti in auto per incontrare altre persone erano un rito collettivo, costoso per l’ambiente e inutile, a cui nessuno osava o poteva sottrarsi. Dall’altro lato, abbiamo capito che alcuni incontri erano vitali per la generazione di idee, per la condivisione di quelle emozioni che necessitano di una elaborazione collettiva e per il buon funzionamento delle relazioni. Abbiamo rivalutato quelle conversazioni improvvisate alla macchina del caffè in cui scoprivamo cose che non sapevamo di sapere e ci aprivano nuove prospettive o stimolavano in noi interessi inaspettati. Abbiamo compreso, quando sono venuti meno, che quegli incontri casuali in cui un collega raccontava un progetto su cui stava lavorando o condivideva qualcosa che aveva appena imparato, ci stimolavano, a volte in un modo obliquo e “a rilascio prolungato”, lasciandoci inconsapevoli del loro valore ma arricchiti. Dopo esserci per anni lamentati della non-puntualità negli orari di inizio delle riunioni, abbiamo rimpianto quelle conversazioni non focalizzate che si facevano attendendo i ritardatari: ci permettevano di condividere pensieri, emozioni e conoscenza, creavano e rafforzavano legami ed erano olio negli ingranaggi delle relazioni. Insomma, questo gigantesco esperimento sociale a cui la pandemia ci ha costretto a partecipare, ha dimostrato che ciò che per abitudine consideravamo utile non sempre lo era e viceversa.
L’implicazione per le organizzazioni è che trovare un nuovo equilibrio tra lavoro in presenza e a distanza non sarà solo una questione percentuale (“permetteremo un giorno di smart-work alla settimana”), ma richiederà un ridisegno per scegliere accuratamente non solo quanto, ma soprattutto cosa chiedere ai dipendenti di svolgere dove. Inoltre, dato che gli uffici diventeranno luoghi dove prevalentemente ci si reca per far fiorire idee, le organizzazioni avranno interesse a creare occasioni che lo facilitino, creando la serendipità degli incontri casuali e, addirittura, facilitando i contatti al di fuori dei silos organizzativi di appartenenza di ciascuno. Queste nuove occasioni di incontro dovranno essere “acceleratori di relazioni” che permettono a persone che si incontrano meno frequentemente di conoscersi e di ampliare il proprio network.
Incremento dei nuovi inizi professionali. Un altro trend che ha avuto impulso dalla pandemia ma era già “sui radar” riguarda i nuovi inizi professionali. Non è un’idea nuova che per restare nel mondo del lavoro dovremo ricominciare molte volte: lo storico Yuval Noah Harari ha previsto che ogni dieci anni cambieremo carriera e l’Institute for the Future, nel 2017, dichiarò che l’85% dei lavori che sarebbero esistiti nel 2030 non erano ancora stati inventati. Sarà giocoforza indirizzarsi verso nuove professioni emergenti, anche all’interno della stessa organizzazione, quando quelle in cui ci si trova diventano meno utili. I network di relazioni di ciascuno ne risentiranno positivamente: presumibilmente si amplieranno e diversificheranno ad ogni nuovo inizio.
La pandemia ha influenzato questo trend in due modi. Anzitutto la ridefinizione del mix presenza-distanza nello svolgimento del lavoro e delle attività quotidiane sta facendo sì che alcuni tipi di lavoro vengano sostituiti più rapidamente del previsto da altri. Inoltre, ha dato lo stimolo e forse, nelle pause forzate, il tempo per riflettere sulla propria carriera accelerando il fenomeno. Questo si è tradotto in un numero elevato di “ripensamenti” più o meno profondi e sta portando importanti percentuali di persone a valutare nuovi inizi professionali, più o meno vicini al lavoro attuale.
Le organizzazioni, per stare al passo con numerosi nuovi inizi delle proprie risorse, dovranno perfezionarsi nel reskilling comprendendo però che l’apprendimento rapido delle hard skill necessarie per svolgere il nuovo lavoro è solo una parte della formula. Sarà fondamentale sviluppare nelle persone anche la restartAbility, cioè quell’insieme di soft skill che servono ad affrontare positivamente i nuovi inizi. Questi, come ha sottolineato Harari, richiederanno molta energia e tenuta psicologica a causa della crescente distanza tra i lavori in via di obsolescenza e i nuovi lavori. Inoltre, le organizzazioni dovranno assicurarsi che i propri dipendenti possiedano competenze di collaborazione avanzate perché queste sono indispensabili per lavorare nei gruppi quando diminuisce il grado di omogeneità.
Nuova divisione del lavoro tra uomini e macchine intelligenti. Infine, guardando un po' più in là nel futuro, le relazioni professionali saranno influenzate dalla nuova divisione del lavoro tra uomini e macchine intelligenti. Agli esseri umani verranno riservati i compiti che valorizzano le competenze autenticamente umane, nelle quali essi hanno un solido vantaggio rispetto alle macchine. Ci verrà chiesto di essere curiosi e creativi, di innovare sfidando la conoscenza esistente, di usare l’immaginazione per sviluppare concetti nuovi e di usare capacità imprenditoriali per trasformarli in nuovi prodotti e servizi. L’implicazione per le organizzazioni è che, per mettere le persone nelle migliori condizioni per fare tutto questo, dovranno diventare realmente umanocratiche. Secondo Gary Hamel, che ha coniato il termine, questo richiederà una riduzione drastica della burocrazia con un effetto dirompente sulle reti e sulla natura delle relazioni che si costruiscono nelle organizzazioni.
Se proviamo per un attimo a immaginare il futuro, possiamo prevedere che ci si recherà al lavoro principalmente per scambiare e sviluppare idee. La burocrazia sarà contenuta al minimo indispensabile per permettere a chi vi lavora di esprimere il proprio potenziale facendo leva sulle competenze in cui gli esseri umani sono superiori alle macchine, nel frattempo divenute sempre più intelligenti. Possiamo ipotizzare vite professionali lunghe, in cui si alterneranno lavoro, aggiornamento professionale e reskilling, in cui si ricomincerà tante volte, ogni volta riconfigurando e “miscelando” le proprie reti di relazioni. Infine, possiamo azzardare che le organizzazioni assomiglieranno a un incrocio tra business school e incubatori di start-up perché vi si apprenderà continuamente e l’obiettivo sarà portare nuove idee sul mercato con agilità e velocità. Se questi scenari si verificassero anche solo in parte, le reti di relazioni professionali ne uscirebbero rivoluzionate.