L’aumento dei prezzi del gas cominciato a inizio anno e proseguito in estate con preoccupanti impennate non accenna ad oggi a diminuire. Da metà settembre i prezzi hanno raggiunto picchi intorno ai 70 euro/MWh, segnando un rincaro di quasi il 250% da inizio anno e di circa il 1500% da gennaio 2020. Il verificarsi di un tale andamento già da settembre non fa ben sperare in vista dell’inverno e dell’ulteriore rialzo che sarà trainato dalle esigenze di riscaldamento del settore residenziale.
Il crescendo dei prezzi è in gran parte imputabile alla ripresa post-Covid delle principali economie mondiali. Tuttavia, a giocare un ruolo importante sono anche le dinamiche specifiche del settore gas e alcune recenti evoluzioni rispetto al passato.
La crescente interdipendenza globale del mercato del gas sta aumentando le fluttuazioni dei prezzi, che ultimamente si orientano sempre più al rialzo. L’interdipendenza è dovuta a vari fattori, in primis l’accresciuto stock infrastrutturale che collega i paesi produttori con quelli consumatori, spinto dalle politiche ambientali coal-to-gas ma anche dalla riduzione del divario nel costo del trasporto del Gas Naturale Liquefatto (GNL) rispetto al trasporto tramite gasdotto. Questo ha permesso a paesi lontani dai principali giacimenti, e quindi geograficamente svantaggiati nella fornitura tramite gasdotto, di colmare questo divario ed emergere come protagonisti nella governance globale del gas.
Su tutti, le economie industrializzate dell’Asia orientale stanno puntando molto sul gas, per i motivi di cui sopra. Il Giappone rappresenta il precursore, soprattutto per via della necessità di sostituire l’energia nucleare con il gas in seguito all’incidente di Fukushima del 2011. L’emergere della Cina, invece, è imputabile principalmente all’espansione industriale, ma anche alla recente politica di diversificazione dal carbone. Da poco la Cina ha anche superato il Giappone come primo importatore di GNL.
La ripresa industriale cinese era già cominciata nella seconda metà del 2020, ma nel primo semestre 2021 ha raggiunto il suo picco, facendo impennare la domanda di gas, sia di produzione interna che di importazione. Come riportato dall’Oxford Institute for Energy Studies, soltanto nel primo semestre del 2021 la domanda di gas cinese ammontava a 192 miliardi di metri cubi (bcm), in aumento di 32 bcm rispetto al 2020. Per dare un’idea dei ritmi di crescita, basta paragonare la domanda annuale del 2019, che ammontava a 300 bcm, a quella prevista per il 2022 di 400 bcm, che rappresenterà circa il 10% della domanda mondiale.
Rimanendo in ambito eurasiatico, ma cambiando prospettiva dal lato dell’offerta, le strategie russe di produzione ed export rappresentano l’altro fattore chiave che spiega l’attuale impennata dei prezzi, soprattutto per quanto riguarda l’Europa. L’impressione è che Gazprom stia sfruttando il periodo favorevole in termini di aumento della domanda in Europa attraverso una politica di sostegno dei prezzi. Nonostante Nord Stream 1 sia impiegato ormai da tempo a piena capacità, la rotta ucraina invece ha assistito a una diminuzione dei flussi, frutto di una scelta deliberata da parte di Gazprom, testimoniata dalla ridotta capacità di trasporto prenotata presso il Gestore della Rete di Trasmissione Ucraino per l’anno corrente. Le altre due principali arterie, quella polacca e turco-bulgara, hanno mantenuto flussi più costanti, sebbene su volumi inferiori.
Ma la politica di sostegno dei prezzi praticata da Gazprom non è soltanto resa possibile dal suo potere di mercato in Europa, che lo rende primo tra i fornitori, soddisfacendo più del 40% delle importazioni totali europee. Paradossalmente, Gazprom sta cogliendo i frutti di una strategia portata avanti dalla Commissione Europea da diversi anni a questa parte. Tale strategia mira a ridurre la quota dei contratti di lungo termine che Gazprom ha storicamente stipulato con le controparti europee, ritenuti strumento di abuso di posizione dominante in quanto impedirebbero l’accesso ai mercati europei da parte di potenziali competitori. Nonostante Gazprom mantenga ancora una quota di contratti di lungo termine (sebbene rispetto al passato questa sia ridotta nei volumi e nella durata), ha allo stesso tempo ampliato il suo portafoglio di contratti a breve e spot, che garantiscono un premium e una leva negoziale non indifferenti in periodi di domanda e prezzi in aumento come quello attuale.
Il progressivo svincolarsi da impegni sulle forniture da parte dei paesi produttori non è una buona notizia per i paesi importatori. I paesi europei, per esempio, sono costretti a una dura competizione con quelli asiatici per approvvigionamenti che fino a qualche anno fa non venivano messi in discussione. L’assestamento dei prezzi a questi livelli nel medio periodo, o ancora peggio uno stato di instabilità costante causato da fluttuazioni, rischiano di arrecare danni all’industria e di frenare la ripresa post-Covid.
Ricapitolando, diversi fattori hanno contribuito alla recente impennata dei prezzi del gas, dalla ripresa economica post-Covid, alla crescente interdipendenza del mercato mondiale del gas, che sta dando spazio alla domanda asiatica, fino alle strategie russe di riduzione dell’offerta che mirano a sostenere i prezzi e capitalizzare sul momento favorevole. In questo momento l’Europa sta pagando il costo di due scelte di politica energetica. La prima è di aver incentivato forme contrattuali flessibili per favorire la competizione di mercato in periodi di offerta crescente, non tenendo conto di potenziali contrazioni come quella attuale, e della possibilità da parte dei fornitori di mettere in discussione volumi e prezzi. La seconda è di aver tagliato i finanziamenti a potenziali nuove infrastrutture per l’importazione di gas per favorire la crescita delle rinnovabili, riducendo la possibilità di un ritorno ad uno stato di abbondanza di offerta e soprattutto limitando la diversificazione delle forniture, rafforzando il potere negoziale dei fornitori attuali e le loro politiche dei prezzi.