Nei giorni scorsi ha ottenuto le prime pagine dei giornali l'allarme che il governo giapponese intende riversare in mare l'acqua contaminata che dopo l’incidente nella centrale nucleare di Fukushima di dieci anni fa viene continuamente pompata per raffreddare i noccioli dei tre reattori che hanno subito il meltdown, dopo che lo tsunami ha messo fuori uso i sistemi di raffreddamento in circuito chiuso.

È significativo che questo gravissimo incidente riemerga dal silenzio in cui i media lo hanno relegato solo in modo episodico, e neanche per gli innumerevoli aspetti più allarmanti, dal momento che la tragedia si protrae da 10 anni e realisticamente occuperà ben più dei 30-40 anni che la Tepco (proprietaria dell'impianto) e il governo giapponese vorrebbero far credere. La minaccia di sversamento in mare di oltre 1 milione di tonnellate di acqua contaminata – diluita, bontà loro – incombe da almeno un paio di anni.

L'invito a commentare questa notizia mi impone per chiarezza di affrontare due aspetti.

Il primo: l’acqua che fuoriesce gravemente radioattiva dal raffreddamento dei noccioli dei tre reattori che hanno subito il meltdown viene convogliata in serbatoi di stoccaggio situati nel sito dell’impianto. Più di mille enormi cisterne hanno già raccolto 1,23 milioni di tonnellate di acqua. Non deve stupire che l'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica (IAEA) dichiari che il rilascio dell’acqua contaminata nell’Oceano Pacifico non costituirebbe nessun pericolo perché sarebbe in linea con gli standard internazionali dell’industria nucleare: il trizio è presente, in tracce consentite, anche negli scarichi di acque di raffreddamento di centrali nucleari, avrebbe una tossicità ridotta e una radioattività bassa. Non bisogna dimenticare, infatti, che la IAEA venne fondata nel 1957 con il preciso scopo di promuovere gli usi pacifici dell'energia atomica: la sua genesi risale al lancio da parte del presidente Eisenhower all'Assemblea Generale dell'ONU del programma Atoms for Peace nel 1953. Si legge nel sito ufficiale della IAEA che essa «è fortemente legata all'energia nucleare e alle sue controverse applicazioni, sia come arma che per usi pratici utili.» Insomma, come si usa dire, non chiedere all'oste se il suo vino è buono. Il sistema di filtraggio delle acque contaminate a Fukushima non solo non trattiene il trizio, ma, almeno parzialmente, neanche altri isotopi: il rutenio, il cobalto, lo stronzio e il plutonio. La radioattività del trizio si dimezza ogni 12 anni, per cui un rapido conto mostra che la pericolosità persiste per più di un secolo. Gli altri isotopi, pure presenti in queste acque, sono ancora più tossici e radioattivi.

Fra l'altro, l’ambiente marino è tutelato da una Convenzione delle Nazioni Unite del 1994 che obbliga gli Stati a prevenire l’inquinamento, in particolare «il versamento di sostanze tossiche, dannose o nocive, in particolare quelle non degradabili» (art.194).

Il sito della centrale di Fuhushima è anche stato ampliato per collocarvi altre cisterne, ma ormai è saturo. La Tepco ha creato un'ulteriore emergenza nell'emergenza, non si è mai neanche pensato ad altre possibilità, che non si possono certo improvvisare, come rimuovere dal sito l’acqua contaminata che si accumulava, per esempio trasportandola altrove via mare, o costruire ex novo circuiti di raffreddamento in ciclo chiuso esterni al reattore, in modo da limitare l’accumulo di acqua: se pure nessuna di queste soluzioni, ammesso che siano praticabili, è esente da conseguenze ambientali, l'urgenza primaria è di limitare i danni del dopo-Fukushima che sono solo all’inizio, con buona pace di chi sostiene che, tutto sommato, Fukushima non è stato come Chernobyl.

Il secondo aspetto afferisce alla necessità di denunciare la permanente gravità dell'insieme delle conseguenze del disastro di 10 anni fa. Se è vero che subito dopo l’incidente il raffreddamento dei noccioli dall’esterno era la scelta obbligata, bisognava pensare – nel tempo – a soluzioni alternative radicali per tutta la centrale, come intombare i reattori, anche se questo è reso difficile dalla loro vicinanza al mare (non c’è spazio per un sarcofago tipo Chernobyl!). È drammatico doverlo ricordare in un momento come questo in cui stiamo pagando costi salatissimi per non aver voluto ascoltare le minacce pandemiche denunciate da decenni. Ma l'Uomo «Apprendista Stregone» non sembra imparare dagli errori, ed ecco che si riaffacciano le proposte di un rilancio dei programmi nucleari spacciandoli come carbon free, occultando le inevitabili ricadute dell'energia nucleare.

Nessun paese al mondo ha realizzato un deposito "definitivo" per i residui radioattivi che rimarranno pericolosi per la società umana e per l'ambiente per migliaia di anni, perché, ieri come oggi, alla lobby nucleare interessa solo la costruzione di nuove centrali. E in Italia è arrivato al pettine da pochi mesi il nodo del deposito delle modeste quantità (rispetto ad altri paesi) di residui radioattivi prodotti o lasciati dai nostri limitati programmi nucleari. Se ovviamente non meravigliano le lobby nucleari, che fanno il loro mestiere, allarma che la sirena del nucleare carbon free faccia breccia anche in certi ambienti ecologisti o in movimenti che si mobilitano per l'emergenza climatica. Da Fukushima, come da Chernobyl (di cui fra una paio di settimane ricorrerà il trentacinquesimo anniversario) dovremmo imparare una volta per tutte che i disastri nucleari avvengono localizzati in paesi specifici, ma gli effetti coinvolgono anche altri paesi, per cui le decisioni di programmi nucleari dovrebbero coinvolgere direttamente la comunità internazionale.