Tra poche settimane si celebrerà il decennale del referendum che chiuse la discussione pubblica sul rilancio del nucleare in Italia. Il Governo Berlusconi aveva firmato con la Francia di Sarkozy un “Memorandum of Understanding” per la costruzione in Italia di 4 reattori EPR da 1650 MW, MoU poi annullato col voto referendario che riuscì a raggiungere il quorum nonostante il tentativo di bloccarlo con una moratoria. Cosa è accaduto da allora? I due EPR che erano già in costruzione a Flamanville in Francia e a Olkiluoto in Finlandia non sono ancora entrati in funzione, accumulando ritardi enormi e circa quadruplicando i costi previsti originariamente: questo nonostante non avessero avuto alcuna opposizione. La francese Areva (impegnata a Olkiluoto) e la nippoamericana Westinghouse-Toshiba (per i costi legati alla costruzione di quattro reattori AP1000) in questi anni sono andate in bancarotta.

Il Governo UK nel 2012, per convincere la francese EDF (in un consorzio con la cinese CGN oggi al 33,5%, nessun altro partner dopo il fallimento di Areva) a costruire due EPR nel sito di Hinkley Point, accordava uno “strike price” – un prezzo garantito - all’energia che i reattori produrranno in futuro. Si tratta di un prezzo indicizzato all’inflazione e che oggi vale poco oltre 106 £/MWh (123 €/MWh) dunque tra quasi il doppio e quasi il triplo del costo medio dell’elettricità registrato in questi anni in UK. Lo strike price verrà riconosciuto per 35 anni (i reattori sono progettati per durare 60 anni), e dovrebbero (quando sarà) produrre 22-24 TWh all’anno, e ricevere un “premio” per coprire gli elevati rischi finanziari della costruzione pari ad (almeno) 11-12 miliardi di sterline per 35 anni ai valori attuali.

Se facciamo un confronto approssimativo con i vituperati incentivi alle rinnovabili in Italia (12 miliardi di euro all’anno) dobbiamo ricordare che, dall’introduzione del sistema incentivante ad oggi, sono stati aggiunti circa 50 TWh rinnovabili all’anno sulla rete (solare, eolico, biomasse), pari dunque grosso modo alla stessa energia che avrebbero prodotto i fantomatici 4 EPR dell’accordo Berlusconi-Sarkozy. Con la vittoria referendaria abbiamo dunque evitato 4 cantieri EPR che si sarebbero rivelati dei veri e propri “buchi neri” finanziari. Con costi crescenti e tempi lunghissimi il nucleare rappresenterebbe una costosissima perdita di tempo, mentre la lotta alla crisi climatica richiede di accelerare la decarbonizzazione.

Sempre nel 2012, il Governo Obama dichiarava fallito il progetto di deposito geologico per i rifiuti nucleari americani di Yucca Mountain e il Congresso non trovava una soluzione. La Corte d’Appello del Distretto di Columbia, una Corte di alto profilo avendo sotto la sua giurisprudenza il Congresso USA, chiede al regolatore nucleare (Nuclear Regulatory Commission) cosa fare del combustibile nucleare irraggiato, atteso che non si trovi un deposito geologico in cui conservare a lungo termine i rifiuti nucleari più pericolosi. Due anni dopo, un tempo lunghissimo per gli standard americani, la Commissione della NRC decise che il combustibile nucleare irraggiato può essere stoccato a lungo termine (“indefinitamente”) presso gli impianti nucleari anche dopo la disattivazione dell’impianto, ovviamente con opportune misure tecnologiche e di sicurezza.

Vale la pena di ricordare che, dalla presidenza Carter in poi, negli Stati Uniti è stata bloccato il riprocessamento del combustibile – la cui giustificazione non è mai stata economica ma solo di estrarre il plutonio – ragion per cui le barre irraggiate sono conservate sia nelle piscine di raffreddamento delle centrali che in speciali contenitori (cask) a secco. La scelta è la più corretta sia dal punto di vista ambientale, essendo il riprocessamento del combustibile irraggiato la fase più sporca del ciclo del combustibile nucleare, che da quello della proliferazione atomica (estrarre il plutonio dalle barre è un processo complesso e tecnologicamente impegnativo). Così negli USA, che rimane il maggiore tra i Paesi nucleari e col maggior quantitativo di rifiuti nucleari, il fallimento del progetto di Yucca Mountain si è tradotto nella opzione di gestire “a tempo indeterminato” presso le centrali disattivate – con opportune misure tecnologiche – delle barre di combustibile irraggiato – in assoluto la parte più complicata da gestire dei rifiuti ad alta attività. Nessuna “soluzione” – lo stoccaggio geologico a lungo termine - alla questione dei rifiuti nucleari negli USA è dunque ancora all’orizzonte nel Paese che ha inventato la tecnologia circa 70 anni fa e che ne è tuttora il principale utilizzatore in termini assoluti.

Al sostanziale stallo dell’industria nucleare in Occidente si è reagito con l’estensione della vita degli impianti esistenti autorizzandone il funzionamento – con prescrizioni – oltre i limiti di tempo previsti da progetto. Negli USA molti impianti sono stati già autorizzati per estendere la loro attività a 60 anni e qualcuno propone già di estenderne ulteriormente la vita. In Francia la situazione è la stessa e per 32 vecchi reattori che sono vicini ai 40 anni di vita progettuale. L’Autorità di sicurezza nucleare (ASN) ha già aperto una procedura di consultazione che però non rispetta le Convenzioni di Espoo e Aarhus che richiedono l’attivazione di procedure VIA e il coinvolgimento dei Paesi confinanti (come accade già in altri Paesi europei).

Lo scorso gennaio su sollecitazione di Greenpeace Italia l’allora Ministero dell’Ambiente aveva scritto al Ministero per la Transizione Ecologica francese per chiedere l’applicazione delle convenzioni sopra citate e coinvolgere anche il nostro Paese nella consultazione: infatti, entro 200 Km dai confini con l’Italia sono presenti 6 siti con 14 reattori di potenza da 900 MW e 2 da 1300 MW. Vedremo se il Ministro Cingolani riprenderà l’iniziativa; intanto Greenpeace Italia ha inviato le sue osservazioni critiche alle Regioni confinanti la Francia.