Dopo aver raggiunto un picco produttivo di quasi 13 milioni barili giorno (mil. bbl/g), durante i primi tre mesi del 2020, tra maggio e giugno la produzione di petrolio degli Stati Uniti ha subito in media una contrazione di circa 2,5 mil. bbl/g, -20%. A partire da luglio, si assiste a una nuova risalita, con un output che fra novembre 2020 e gennaio 2021 torna su livelli poco superiori a 11 mil. bbl/g, recuperando circa un terzo del taglio registrato. È stato, invece, minore l’impatto sul gas naturale. Quest’ultimo, in media, ha raggiunto un massimo storico di circa 87 miliardi di piedi cubi al giorno (mld pc/g) da ottobre 2019 a gennaio 2020, valore ridottosi di circa un 10% a giugno 2020. Inversione di tendenza a partire da ottobre 2020 fino a gennaio 2021, quando l’output gasifero ha registrato una media di circa 83 mld pc/g, per un recupero di circa il 6%.

Anche i prezzi delle commodities energetiche hanno seguito un trend simile. Il WTI, che il 20 aprile 2020 ha toccato un prezzo negativo di -37,63 doll/bbl, aveva portato molti a pensare che il greggio americano non sarebbe più tornato a superare di molto i 30 doll/bbl:  il contratto a termine di 12 mesi era, infatti, scambiato a poco più di  34 dollari. Tuttavia, nel febbraio 2021, il WTI ha superato quota 60, con un trading spot oscillato, da allora, in un range di 58-65 doll/bbl. Il gas naturale (Henry Hub), addirittura, dopo essere sceso sotto i 2 doll/Mbtu a causa della pandemia, da ottobre 2020 è tornato sopra i 2,5 doll/Mbtu, per poi salire sopra i 10 doll/Mbtu e toccare addirittura i 20 dall'11 al 18 febbraio quando un’ondata di freddo siberiano si è abbattuta sugli Stati Uniti.

Relativamente alle esportazioni di greggio e prodotti, merita rilevare come queste siano diminuite più della produzione, portandosi a quasi 3,2 mil bbl/g a maggio 2020, più di un terzo rispetto al picco pre-pandemico di quasi 10 mil. bbl/g, per poi tornare a una media di circa 9 mil bbl/g a gennaio 2021. Le esportazioni di gas invece, sia quelle tramite gasdotto verso il Messico che quelle sotto forma di GNL sono diminuite nell’intorno del 34% rispetto al picco pre-pandemico (quasi 1,4 mld pc/g). Il GNL (che assorbe quasi la metà del gas venduto all’estero) è crollato di oltre il 60%. Tuttavia, già a gennaio 2021, l’export di gas ha raggiunto un nuovo picco che ha superato la soglia record di 1,7 mld pc/g, con il GNL che ha segnato un aumento del 217% rispetto al valore minimo toccato a giugno 2020.

Dove andremo?

Il taglio della produzione provocato dalla pandemia ha generalmente rispettato le previsioni. In un’ottica futura, tutti gli occhi sono puntati sul futuro dell’industria dello shale americano, da cui a partire dagli anni 2000 deriva la maggior parte dell’output petrolifero del paese a stelle e strisce. Se è un dato di fatto che nel corso degli anni i costi di perforazione e produzione dello shale oil siano diminuiti, è pur vero che quelli inerenti la logistica e tutto ciò che influenza la catena di approvvigionamento potrebbero condizionare la redditività di questo comparto. Tant’è che sia i producers che gli operatori di servizio hanno dovuto intraprendere dei cambiamenti radicali nei loro segmenti di business.

Tra di loro, la maggior parte stava registrando un trend positivo nell’epoca pre-Covid, spinti dall’interesse da parte degli investitori internazionali che puntavano sul mercato statunitense per migliorare la redditività. Questo e altri fattori hanno permesso alle imprese di digitalizzare le proprie attività, dalla gestione remota della perforazione, all'automazione della produzione fino alla raccolta dati e all'analisi. Per una serie di motivi, tra cui la sicurezza e il monitoraggio ambientale, è improbabile che le aziende facciano dietrofront da questo punto di vista. Al contrario, le pratiche digitali stanno iniziando a consolidarsi e a fondersi con la forza lavoro tradizionale. In questo senso, un’impresa più snella, digitale e di ridotte dimensioni potrebbe aiutare a preservare margini di profitto sempre più ridotti.

La maggiore redditività e, soprattutto, la riduzione dei debiti accumulati dagli operatori di scisto - una conseguenza di brutali aggiustamenti dei costi ma anche di un aumento dei prezzi del petrolio - si stanno manifestando nelle valutazioni delle azioni delle società quotate. L'industria statunitense del petrolio e del gas oggi è quasi tre volte più redditizia rispetto al record negativo di marzo 2020 (coincidente con la famosa svalutazione che portò le quotazioni del greggio sotto zero). Certo si tratta di una frazione del valore, poco più di un terzo, che si era registrato a giugno 2014. Va però sottolineato come, sebbene i prezzi delle azioni dell'industria petrolifera e del gas siano ancora inferiori all’indice di riferimento S&P 500, abbiano superato sia gli indici legati alle azioni “high tech” (quasi il 40% in più) che gli indici di "renewable and clean tech" (di dieci volte). Questo dato coglie un fattore piscologico. Le società di "tecnologia per l'energia pulita" erano infatti cresciute di oltre 1,5 volte in termini di valore quando si è instaurata la credenza diffusa che queste attività sarebbero state favorite dagli interventi degli Stati durante la pandemia. Si era appunto consolidata l’idea che molti governi, compresi gli Stati Uniti, avrebbero indirizzato la spesa pubblica verso le "tecnologie pulite" per garantire una ripresa economica nel segno del green. Al contrario, oggi sappiamo gli investitori non hanno voltato le spalle all'industria Oil&Gas. Né la tesi della “decarbonizzazione drastica” né quella del picco della domanda si sono ad oggi rivelate fondate. Ad esempio, il 23 marzo 2021 il Financial Times ha riferito che le principali banche avevano diretto più di 750 miliardi di dollari verso investimenti in combustibili fossili durante il 2020, andando decisamente controcorrente rispetto alle aspettative iniziali.

Tutto ciò ha fatto guadagnare spazio ai player americani dello shale, restituendo un po’ di ottimismo ma lasciando ampie perplessità sul futuro di questa industria. Le preoccupazioni risiedono nella convinzione che prezzi più incoraggianti rischiano di spingere la produzione, quindi la domanda, e che questo si traduca in una nuove pressione al ribasso sulle quotazioni. Peccato che l'industria non possa permettersi di rischiare l'infelicità degli investitori. Ciò è particolarmente vero date le enormi tensioni che circondano la politica energetica e ambientale. I primi 100 giorni dell'amministrazione Biden ne sono l’emblema, con una gamma di azioni politiche e normative che potrebbero avere un impatto negativo sull'industria petrolifera e del gas, riducendo la produzione nazionale e interessando i clienti energetici nazionali e internazionali. Si va da uno stop alle concessioni localizzate su terre e acque federali a regole più rigide sulla gestione dell'acqua prodotta dai pozzi di petrolio e gas, da un aumento della tassazione aziendale a un nuovo green deal infastrutturale che impegnerà, e non di poco, il bilancio federale. Bisognerà valutare il peso di queste iniziative e la loro ripercussione sull’industria petrolifera statunitense per comprendere quanto queste avranno ripercussioni sui loro investitori.

Michelle Michot Foss, (Ph.D., Fellow in Energy, Minerals & Materials, Center for Energy Studies, Rice University’s Baker Institute for Public Policy)