Sfatiamo subito uno stereotipo largamente diffuso dopo le dimissioni del governo Conte bis. L’incarico dato a Draghi non sanziona affatto la sconfitta della politica, anzi, riafferma il primato di una Politica dove nei criteri di scelta del premier sono prioritari la competenza e la conoscenza dei problemi da affrontare, mentre a cedere il passo è una gestione della cosa pubblica da parte di maggioranze improvvisate e di compagini ministeriali al cui interno non tutti sono adeguati al ruolo ricoperto.

Con l’incarico a Draghi si sono dunque poste le premesse per garantire che i 210 miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) siano impegnati per rilancio economico e sociale del Paese. Con la loro risposta alla designazione di Draghi, i mercati lo credono possibile. Il repentino cambiamento nei comportamenti di alcuni leader politici sembra confermarlo.

Tuttavia, perché si verifichi ciò che le premesse promettono, devono realizzarsi almeno due condizioni. La prima è stata definita con sintetica chiarezza da Sergio Fabbrini su “Il Sole 24 Ore” del 7 febbraio: quello di Draghi non deve essere un governo di coalizione, ma un governo sostenuto da una coalizione di parlamentari che si riconoscono nel suo progetto. Detto altrimenti, dovremmo avere un gabinetto composto da ministri, dove conditio sine qua non per la nomina di quelli con un’esplicita appartenenza partitica sia la predisposizione, comprovata dalla loro storia politica, a fare sistema. Su questo punto la fermezza decisionale, senza lasciarsi condizionare da pressioni esterne, manifestata da Draghi quando le circostanze lo imponevano (emblematica la scelta di varare il quantitative easing), milita a favore di un esito positivo.

Più problematico sarà garantire che il governo abbia il tempo necessario non solo per riscrivere il PNRR, discuterlo con Bruxelles e farlo approvare, ma anche per avviarne la successiva attuazione. Anche se i tempi sono stretti (poco più di due mesi), con un premier a cui nessuno oserà contestare il ruolo di regista, perché certamente capace di fornire al Piano una visione complessiva adeguata e di tradurla in obiettivi con essa coerenti, sarà possibile presentare in tempo utile a Bruxelles un documento privo della disorganicità e delle incongruenze di quello attuale, a partire dallo sfoltimento dei progetti presenti nella versione del PNRR inviata da Conte al Parlamento. Obiettivo che non è necessariamente sinonimo di riduzione delle aree di intervento (anzi, sarà necessario riempire alcuni “vuoti”).                                  

Spesso basterà integrare in modo coerente e sinergico progetti che attualmente sono addirittura collocati in sezioni diverse. Emblematico è il caso dello sviluppo della rete ferroviaria, correttamente presentato all’interno della Missione “infrastrutture per una mobilità sostenibile”, mentre, inspiegabilmente, nella Missione “rivoluzione verde e transizione ecologica” si affronta l’obiettivo del trasporto locale sostenibile; per di più con un progetto relativo all’utilizzo idrogeno nel trasporto ferroviario nazionale, di cui non vi è traccia nella Missione infrastrutture.

Alcuni investimenti andranno invece eliminati, se non sono realizzabili nell’arco temporale del Piano, ma soprattutto se non risultano in grado di mobilitare significativi investimenti privati; condizione, quest’ultima, essenziale per garantire uno sviluppo economico che prosegua anche dopo la cessazione degli stimoli del PNNR. Per effettuare la selezione dei progetti da scartare, sarà però necessario valutarne l’impatto economico-sociale, come peraltro richiesto per tutti i progetti proposti; un’analisi oggi assente, che non è semplice effettuare in un paio di mesi. Altrettanto complicato sarà porre rimedio alla mancanza di giustificazioni per i costi dei singoli progetti.

Ma l’autentica sfida sarà l’attuazione di quelle riforme (diritto civile, PA, fisco, processi autorizzativi, formazione, ricerca …) che a tutti gli interlocutori Draghi ha ripetuto di considerare prioritarie, perché in loro assenza non sarebbe garantita la fattibilità, nei tempi previsti, anche di un ottimo progetto.

Si tratta infatti di riforme mai realizzate con l’incisività necessaria a renderle realmente efficaci, perché colpirebbero consolidati interessi corporativi, da sempre rappresentati all’interno del Parlamento. La misura in cui verranno attuate ci dirà se il coro di sì alla designazione di Draghi è stata una mera manifestazione di opportunismo politico o, viceversa, l’espressione della consapevolezza che, per uscire dalla triplice crisi – pandemica, economica, sociale – sia necessaria un’autentica rivoluzione politico-culturale.

Una verifica inequivocabile dovrebbe essere disponibile in tempi brevi.

Perché sia credibile per i mercati, per l’UE e per gli Stati membri frugali, il take-off del Piano dovrà essere gestito dal medesimo governo che, forte dell’appoggio del Parlamento, ne ha ottenuto l’approvazione da parte delle istituzioni comunitarie.

Quello di Draghi dovrebbe quindi durare per i due anni abbondanti che ci separano dalla scadenza maturale della legislatura. Un obiettivo irrealizzabile, qualora chi si è dichiarato disponibile a dare la fiducia solo «se c'è un progetto di Paese che ci convince, ovviamente della durata dei mesi», mantenesse ferma questa posizione.