Le avanguardie ambientaliste del secolo scorso si muovevano lungo una frattura allora molto profonda, quella che separava la tutela del lavoro da quella della salute (ambientale e dunque umana). Fortunatamente, l’avanzata del progresso tecnologico sta progressivamente limando i motivi di scontro su questo fronte. I problemi da superare restano, ma adesso gli strumenti per affrontarli ci sono. Si sta però diffondendo a macchia d’olio un nuovo tipo di conflitto, ben più subdolo: quello tra “sfiduciati” e “costruttori”. Su questo terreno, almeno in Italia, i nuovi ed illuminanti motivi di frizione sono l’eolico offshore e l’agrivoltaico.
A leggere le cronache che affollano i giornali, sia i parchi eolici in mare aperto sia i pannelli fotovoltaici su terreni agricoli – per quanto abbandonati o marginali – non sembrano infatti riscuotere ampi consensi nel nostro Paese. Ad oggi nessun impianto eolico risulta attivo in acque italiane, mentre l’agrivoltaico viene frequentemente posto in contraddizione con la tutela del paesaggio e le produzioni agroalimentari di qualità.
La buona notizia è che da qualche tempo, sia per l’eolico offshore sia per l’agrivoltaico, la saldatura tra il mondo del lavoro e quella dell’ambientalismo si sta facendo sempre più solida.
Lo scorso novembre Legambiente ha presentato a Parlamento e Governo il documento “Agrivoltaico, le sfide per un’Italia agricola e solare” che punta a “individuare un percorso per accelerare la diffusione del fotovoltaico in Italia, con soluzioni che rendano le aziende agricole protagoniste, scongiurando la sostituzione di colture con impianti, ma integrandoli e rendendoli un fattore di supporto al reddito agricolo che deve rimanere prevalente”. Quanto una prospettiva di questo tipo possa tornare a valorizzare la figura dell’agricoltore, oltre alla produzione di energia rinnovabile, lo dimostrano altre due iniziative che hanno preso vita sul finire dello scorso anno.
La prima ha prodotto un documento congiunto tra Coordinamento Free, Cia-Agricoltori italiani, Confagricoltura, Elettricità futura e Italia solare, partendo dal presupposto che “un attento uso del suolo agricolo è imprescindibile, anche nel caso del fotovoltaico, in quanto risorsa preziosa per l’agricoltura e per la società e l’inserimento degli impianti nel paesaggio agrario dovrà essere adeguatamente valutato, ma prima ancora è necessario riconoscere che il paesaggio possa essere modificato per coniugare bellezza ed armonia con la necessità di rendere vivibile un territorio”.
La seconda iniziativa ha poi portato Elettricità futura e Confagricoltura a siglare un protocollo d’intesa per “promuovere, in linea con gli obiettivi stabiliti dal Piano nazionale integrato energia e clima, lo sviluppo equilibrato e sostenibile degli impianti a fonti rinnovabili nei contesti agricoli”.
Allo stato dell’arte, dunque, appaiono largamente infondati i pregiudiziali motivi di scontro tra il mondo ambientalista, quello agricolo e quello delle fonti rinnovabili.
E lo stesso sembra possibile osservare nell’ambito dell’eolico offshore.
Nell’ambito di Key Energy 2020 è stato infatti presentato il “Manifesto per lo sviluppo dell’eolico offshore in Italia, nel rispetto della tutela ambientale e paesaggistica”, firmato dall’Anev (l’Associazione nazionale energia del vento) insieme a Legambiente, Greenpeace e Kyoto Club. Secondo il presidente Anev, Simone Togni, si tratta di «una svolta epocale per il settore eolico, finalmente si prende atto del potenziale dell’energia del vento nei mari italiani. Il settore eolico offshore italiano è pronto a portare in Italia i benefici connessi con la propria attività, seguendo come di consueto i protocolli e le regole di tutela e salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio e offrendo in più, a fronte del potenziale di 900 MW installati, energia pulita pari a 2,38 TWh all’anno e 1.200 nuovi posti di lavoro».
E se questo è quanto si muove all’interno dei confini nazionali, è utile sottolineare che iniziative trasversali di questo tipo si stanno registrando in tutta Europa, come mostra la recente nascita della Coalition for offshore energy and nature, una partnership tra le principali Ong ambientaliste e i professionisti dell’eolico che unisce Birdlife Europe, Climate action network Europe, Wwf, Naturschutzbund Deutschland (Nabu), The royal society for the protection of birds, Natuur & Milieu, The wildlife trusts, Stichting De Noordzee , The renewables grid initiative, 50hertz, Amprion, Elia Group, Rte France, TenneT, Ørsted, Vattenfall, Siemens Gamesa e WindEurope.
Si tratta di ottime notizie per lo sviluppo sostenibile delle fonti rinnovabili, nel nostro Paese e fuori, ma naturalmente dalle dichiarazioni di principio alla messa a terra degli investimenti di strada ce ne corre. E nel tragitto, adesso che i “costruttori” ci hanno messo la faccia, occorre comunque far fronte ai numerosissimi “sfiduciati” che restano.
All’interno di questo vasto mondo si spazia dalle Ong (come Italia Nostra) concentrate pressoché in toto sulla conservazione dell’esistente, anziché sulla promozione di uno sviluppo socio-economico compatibile coi vincoli ambientali, fino ad arrivare alla moltitudine dei comitati “ambientalisti” che alimentano sindromi Nimby dal sapore reazionario lungo lo Stivale – oltre il 73% degli impianti energetici contestati e censiti dall’Osservatorio Nimby forum ha a che fare con le rinnovabili – e soprattutto a politici ed enti locali che soffiano sul fuoco delle sindromi Nimto (Non nel mio mandato elettorale) guidando non di rado le proteste.
Uno strumento che sempre più frequentemente, e a ragione, viene invocato per far fronte a questo muro di contestazioni è il dibattito pubblico: un preventivo processo di informazione, confronto pubblico e partecipazione in merito a progetti che assumono una particolare rilevanza per la comunità di riferimento. Si tratta di un approccio costruttivo e che merita di essere adottato diffusamente, con la consapevolezza però che alla fine del processo è assai raro che arrivi un applauso unanime, come dimostra da ultimo il pur ottimo e partecipato caso di Vicchio-Dicomano: qui Agsm ha proposto il primo progetto eolico (otto pale, 29 MW di potenza per 80 GWh/anno) sottoposto a inchiesta pubblica in Italia. Il relativo iter per il permitting ancora non s’è chiuso, ma l’inchiesta pubblica sì ed i contrari all’impianto hanno continuato a dirsi comunque “delusi” dall’esito.
Altri, come G. B. Zorzoli su Rivista Energia, pongono l’accento sull’opportunità di coinvolgere sì anticipatamente i cittadini, ma avanzando al contempo proposte che rendano l’investimento in progetto economicamente conveniente, in modo diretto, per i soggetti sociali coinvolti. Come? Ad esempio mettendo in campo strumenti di crowdfunding, attraverso accordi di acquisto a lungo termine dell’energia (Ppa) o tramite la diffusione delle comunità energetiche introdotte dalle direttive Ue.
Si tratta dunque di approcci inclusivi come il dibattito pubblico, ma che con pragmatismo guardano anche alla piena inclusione economica delle comunità locali. Anche in questi casi, però, è opportuno ricordare che il placet all’unisono difficilmente arriverà.
Che fare, dunque? Prendere atto del dissenso e andare avanti, dopo aver fatto il possibile per ricomporne le ragioni, resta l’unica opzione da percorrere. A monte delle sindromi Nimby, come osservava il compianto sociologo Zygmunt Bauman, c’è una crescente sfiducia verso le aziende proponenti ma soprattutto verso le istituzioni che sono chiamate a sorvegliare (e a guidare) il loro operato: «L’attuale crisi della governance e il conseguente calo della fiducia nelle istituzioni democratiche deriva dalla loro assenza e debolezza. Occorre quindi lavorare alacremente alla revisione degli strumenti per un’efficace azione collettiva, alla ricostruzione di un nesso tra la volontà popolare e la capacità di attuare tale volontà». Ascoltare quindi è necessario, ma per i rappresentanti delle istituzioni decidere è poi indispensabile. Anche a costo di far fronte a una perdita di consenso nel breve termine, per dare spazio alla possibilità di sviluppo sostenibile nel lungo termine.