Tra i fattori di competitività del nostro Paese si tende spesso a dimenticare un dato legato al mix energetico nazionale. Non si tratta del mancato affrancamento dalle fonti fossili, che ancora oggi soddisfano oltre il 70% della domanda primaria, quanto della drammatica dipendenza da fonti energetiche provenienti dall’estero. Una nazione è tanto più a rischio quanto più alta è la sua dipendenza energetica e tanto più le importazioni provengono da limitati paesi fornitori, tendenzialmente con una bassa stabilità geopolitica. A tal proposito è curioso riprendere le parole della Presidenza del Consiglio nella Relazione annuale 2020, che sottolineavano il delicato equilibrio tra il funzionamento delle infrastrutture nazionali e “l’instabilità di carattere geopolitico che ha interessato i quadranti nordafricano, mediorientale (incluse le tensioni nel Bacino del Levante) ed est-europeo”. È infatti costante, da parte dei servizi d’intelligence, il monitoraggio dei flussi di approvvigionamento di petrolio e gas, al fine di “prevenire minacce dirette all’operatività di gasdotti, oleodotti, siti di stoccaggio, impianti di raffinazione e altre infrastrutture da parte di potenziali soggetti ostili, interni ed esterni, anche una particolare attenzione per le dinamiche acquisitive/di integrazione nel settore”.

Nonostante il nostro paese dipenda per oltre il 90% dall’estero per le forniture di greggio (come si evince dal grafico), il buon livello di diversificazione dei canali di approvvigionamento sia in termini di numero – importando da oltre 20 paesi – sia da un punto di vista geografico e politico, costituiscono un punto di forza.

Composizione dell’approvvigionamento del greggio e consumi totali di greggio

Fonte: Elaborazione EST su dati BEN

Una prima caratterizzazione va fatta tra paesi produttori ed esportatori: si osserva infatti la presenza di Paesi con giacimenti che geograficamente non godono di accesso diretto al Mediterraneo e che si servono di porti esteri per l’export, determinandone una suddivisione tra greggio “locale” (prodotto sul territorio nazionale) e greggio “esterno” (prodotto da un altro Paese). Pertanto, alcuni Paesi come Azerbaijan, Kazakistan e Arabia Saudita non compaiono tra i Paesi esportatori via mare poiché si servono dei porti di altri Paesi per trasportare in Italia il greggio prodotto. Viceversa, altri Paesi come Turchia, Russia, Egitto e Libia esportano più di quanto producono, proprio perché si sommano le quantità di greggio locale a quelle di greggio esportato.

Applicando una visione d’insieme ai Paesi che forniscono greggio all’Italia, si nota come sia cresciuta nell’ultimo anno la quota del petrolio medio-orientale, a scapito anche delle forniture dall’Africa. Gli ultimi dati del MISE ci mostrano come nei primi 10 mesi del 2020, sia l’Azerbaigian a detenere il primo posto come principale importatore con un 19,3%, seguito da Iraq (17%) e Arabia Saudita che con il 13,4% strappa il terzo posto alla Russia 12,1%, grazie al picco di forniture registrate in particolare tra aprile e maggio.  Merita inoltre rilevare come nell’anno in corso si sia registrato un balzo particolarmente rilevante delle importazioni da Norvegia e Gran Bretagna, (+70% tra gennaio e ottobre 2020 vs lo stesso periodo del 2019) e della quota del petrolio americano il cui peso sul totale delle importazioni passa dall’1,8% dei primi 10 mesi 2019 al 2,5% del pari periodo 2020.

Provenienza dei greggi da diverse aree geografiche (%)

Fonte: ENEA

Una seconda diversificazione riguarda il tipo di greggio importato: dolce, medio o acido (a seconda della quantità di zolfo contenuta), leggero (per gradi API maggiori di 40, cioè con gravità specifica minore di 0,83) e pesante per gradi API minori di 25 (cioè con gravità specifica maggiore di 0,9). Nel 2019 i greggi più importati appartengono alla categoria medio e acido (33,8% del totale importato) provenienti principalmente da Medio Oriente (16,4% del totale importato) e Russia (13,2% del totale importato). Si tratta di una qualità di greggio che contenendo una frazione di zolfo più pesante, questa qualità di greggio necessità una lavorazione tramite processi avanzati di idrocracking e di desolforazione più spinti per rientrare nei limiti di tenore di zolfo previsti per i prodotti raffinati.

Tra le varie tipologie di greggio, l’ENEA identifica quelle più importate nel 2019: l’Azeri Light (Azerbaigian) 8,31 Mt, Urals (Russia) 7,44 Mt, Basrah Light (Iraq) 5,27 Mt, Arabian Light (Arabia Saudita) 4,97 Mt e CPC Blend (Kazakistan) 4,09 Mt. Da gennaio a ottobre 2020, il paniere dei greggi importati presenta qualche differenza rispetto al trend registrato nel 2019: è stato l’Arabian Light a confermarsi al primo posto (5,2 Mt), seguito dall’ Azeri light 5,1Mt, dall’Urals 4,3 Mt e dal CPC Blend (3,5 Mt). Solo quinto posto per il greggio iracheno Basrah Light con 2,8 Mt.

Fonte fossile per eccellenza, il petrolio è una risorsa sempre più limitata e con concentrazione in specifiche aree geografiche. L’energia è da almeno un secolo e mezzo un fattore politico di sicurezza e il petrolio gioca ancora un ruolo troppo ingombrante per poterlo escludere dai calcoli in termini di stabilità geopolitica.

Quando il mondo soffre, rallenta o addirittura si ferma, il petrolio è il primo campanello d’allarme: se ne consuma semplicemente meno. Rallentano traffici, c’è meno scambio internazionale ed il concetto stesso di globalizzazione rallenta la sua linfa naturale, il commercio.

Inutile dire che la pandemia ha ampiamente dimostrato come vi sia un cambio di tendenza in atto nei comportamenti individuali e soprattutto nei macro-obiettivi di sviluppo sostenibile al 2030 e 2050. Vi è però un fattore temporale che non va tralasciato. Dato un arco temporale medio di circa 20-30 anni, e senza tralasciare le implicazioni in termini sociali, tecnologici, economici e d’innovazione che la complessità della transizione energetica porta con sé, qualsivoglia sforzo policy-oriented non può trascurare il petrolio nei propri bilanci energetici. Il petrolio, insomma, è destinato a restare parte sostanziale del nostro mix energetico, almeno per qualche decennio.

Fa bene la politica a guardare lontano, ma la fotografia attuale riporta un quadro più “nero”, di implicazioni geoeconomiche e politiche non indifferenti, consentendoci di far leva sul network energetico costruito in decenni di attività energetiche in tutto il mondo.  Tutto questo con il fine ultimo di garantire la stabilità di quell’indice così importante nel calcolo del valore del nostro sistema energetico nazionale e che - anche oltre il comparto in oggetto - necessita di trasformazioni lente, pragmatiche, strutturate e pianificate in modo multisettoriale affinché se ne veda un risultato concreto in termini di sicurezza.