Rispetto all’obiettivo fissato dall’UE per i PNIEC degli Stati membri di ridurre del 40% entro il 2030 le emissioni nette di CO2 - il doppio di quello stabilito per il 2020 (-20%) – la recente proposta della Commissione europea di innalzarlo al 55% quasi lo triplica. E l’ulteriore modifica del Parlamento europeo alla legge per il clima, che lo porta al 60%, lascia pochi dubbi sull’esito del compromesso finale, che confermerà la riduzione al 55%. È come se ci fossimo allenati per superare l’asticella a quota 40 e, alla vigilia della gara, ci venisse comunicato che dobbiamo superare quota 55. Dovevamo essere in grado di raddoppiare la prestazione del 2020, adesso saremo tenuti a quasi triplicarla.
Per avere un’idea dell’impegno aggiuntivo, secondo il “2030 Climate target plan” della Commissione europea, la produzione rinnovabile a copertura dei consumi elettrici è destinata a salire dall’attuale 55% a circa il 65%.
In Italia il gap dovrà in larghissima misura essere coperto da nuova capacità fotovoltaica. Invece dei 52.000 MW previsti dal PNIEC, si dovrà salire ad almeno 65.000 MW: un incremento di circa 44.000 MW rispetto ai 20.865 MW installati in Italia a fine 2019. Il cambio di marcia richiesto è ancora più impressionante: nel corso del 2019 sono stati installati in Italia impianti fotovoltaici per circa 750 MW, mentre a partire dall’anno prossimo, e per tutto il decennio, dovremo mediamente aggiungere 4.400 MW ogni anno, cioè 5,9 volte tanto.
Ancora più arduo è il cambio di marcia nei trasporti. Prendendo come riferimento il PNIEC tedesco, che ha già assunto il 55% di riduzione delle emissioni, in Italia il contributo delle rinnovabili ai consumi nei trasporti nel 2030 dovrebbe passare dall’attuale 22% al 27% (circa quattro volte la percentuale odierna). Ma non è questa la sfida più ardua. Ai consumi coperti da rinnovabili, il maggior contributo (47% del totale) verrà dai veicoli su strada, mentre il PNIEC italiano prevede il 12%. Tradotto in soldoni, almeno 6 milioni di auto elettriche invece di 4 e 3 milioni di ibride plug-in al posto di 2, che renderanno ancora più impegnativo il compito di assicurare la giusta transizione all’automotive e al downstream petrolifero.
Tuttavia, gli aspetti più critici non sono l’asticella rialzata a quota 55 e nemmeno le nostre condizioni fisiche, ma lo stato del terreno su cui dobbiamo saltare e l’adeguatezza delle scarpe che portiamo ai piedi.
Il nostro sistema produttivo può farcela, anche nei settori più critici, per quanto sarà sottoposto a uno stress molto rilevante. Nell’automotive già da qualche tempo l’indotto sta attrezzandosi, mentre l’incorporazione di fatto di FCA in PSA (per rendersene conto basta vedere composizione e ruoli nel CdA di Stellantis) crea un capofila della filiera più all’altezza delle nuove sfide. Nel settore petrolifero il cambio di statuto e di denominazione dell’Unione Petrolifera, oggi Unione Energie per la Mobilità, con l’ingresso di nuovi soci impegnati nello sviluppo sostenibile, riflette un reale, seppur sofferto, cambio di prospettiva, come confermano le reazioni stizzite di qualche nostalgico.
A mancare non sono certo i capitali, anche stranieri, disposti a investire, cui va aggiunto il 37% dei fondi del Next Generation Eu, riservati al Green Deal: per l’Italia fanno circa 75 miliardi di euro.
Ricomporre la multidimensionalità e la molteplicità degli obiettivi energetico-climatici al 2030 (e oltre) richiede però la piena consapevolezza delle priorità da perseguire e su queste orientare la stesura di un programma in grado di garantire il rilancio e la resilienza del sistema Italia, resistendo a tutte le pressioni che possono far deragliare dal percorso ottimale.
Grazie alle esperienze maturate in tanti anni di attività professionale, mi sono reso conto che, più spesso di quanto si creda, nell’incapacità dei decisori politici di ricomporre il puzzle, la “subalternità ai poteri forti” pesa meno delle asimmetrie informative rispetto alle grandi imprese pubbliche e private; asimmetrie dovute alla scarsità quantitativa, talvolta anche qualitativa, delle risorse professionali presenti nell’apparato governativo. E questo gap non lo si colma in tempi brevi.
L’unico antidoto può essere la consapevolezza, da parte dei decisori politici, delle imprese e delle organizzazioni sindacali, che siamo in presenza di un’occasione irripetibile per garantire al Paese uno sviluppo economicamente, socialmente e ambientalmente sostenibile, obbligandoli a fare sistema.
Dovendo vincere l’attrito di primo distacco, la fase di avvio della ripresa sarà la più difficile e sarà quasi impossibile farcela senza il contributo dei finanziamenti europei.
Per ottenerli, non basta un progetto adeguato.
La valutazione dei risultati intermedi raggiunti spetterà infatti al Comitato economico e finanziario europeo, al cui interno uno o più Stati membri, ritenendo che vi siano gravi scostamenti dal conseguimento dei target previsti, potranno chiedere un rinvio della decisione al Consiglio europeo. E solo nel caso di valutazione positiva verranno autorizzati i relativi pagamenti.
Se permarranno le attuali lungaggini burocratiche e i tempi biblici dei procedimenti autorizzativi, anche il migliore PNIEC rivisto al rialzo rischierà il default. Ma le difficoltà da superare per migliorare a sufficienza e tempestivamente entrambi sono pari all’undicesimo grado attribuito alle scalate più impegnative. Col rischio di una rovinosa caduta.