Con l’arrivo dei finanziamenti legati al Recovery Fund e la pubblicazione della prima bozza di linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, l’Italia sembra finalmente orientata a investire nella transizione ecologica. Una battaglia che negli ultimi anni ha riscosso grande interesse presso l’opinione pubblica ma che ha attecchito poco a livello politico. Ne abbiamo parlato con Rossella Muroni, già presidente nazionale di Legambiente e oggi parlamentare e membro della Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici di Montecitorio, della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati e della Commissione Parlamentare per l'Infanzia e l'Adolescenza.

Partiamo dal Recovery Fund. Dopo anni di “conti senza l’oste”, la transizione ecologica nel nostro Paese ha finalmente un alleato, l’Europa, e diversi miliardi di euro da investire, grazie ai 209 miliardi previsti dal piano Next Generation EU. Cosa pensa della bozza delle "Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”?

Le trovo condivisibili. Certo si tratta ancora di un indirizzo generico, con obiettivi e ambiti di intervento, e mancano dati, cifre e numeri che permettano di capire dove e in che modo avverrà l’allocazione effettiva delle risorse. Nelle linee guida della Francia, ad esempio, questi dati ci sono, speriamo di poterli definire presto anche noi. L’auspicio è che queste linee guida vengano lette e costituiscano davvero una base di partenza per la definizione di una strategia comune. Personalmente trovo molto positiva la sezione che riguarda i progetti, nei quali viene espressamente detto che non verranno finanziati “progetti storici che hanno già riscontrato noti problemi di attuazione e di difficile soluzione nel medio termine”, il che tradotto significa che non ci troveremo a sperperare risorse preziose per costruire il Ponte (o tunnel) sullo Stretto di Messina o altre opere inutili. E spero questa valutazione si estenda a tutti quei progetti ancora sul tavolo che non tengono conto delle mutate condizioni in termini di sostenibilità sia climatica che economica. Sembra un passaggio scontato ma non lo è. Non tutto fa transizione: lo strumento non a caso si chiama Recovery e Resilience Fund, quindi deve essere utilizzato in maniera trasformativa. Forse una volta per tutte la smetteremo di investire in quegli asset che anche il mercato finanziario ha già riconosciuto come stranded, obsoleti.

Il tempo sarà un fattore importante. Non c’è rischio di fare le cose di corsa? Quali altri rischi bisogna evitare?

Il Presidente del Consiglio ha già detto all’Europa che servirà più tempo, io aggiungo che questo tempo andrà utilizzato bene. Nessun assalto alla diligenza, piuttosto impieghiamo queste settimane per mettere sul piatto una visione collettiva sul futuro, sapendo che le due direttive dell’Unione europea riguardano transizione ecologica e innovazione digitale. Mi piacerebbe ci fosse una bella E maiuscola tra questi due obiettivi, per sottolineare che un parallelismo virtuoso non solo esiste ma è pure vincente. Per il resto, dobbiamo stare attenti a non scrivere un libro dei sogni, tanto convincente quanto irrealizzabile. Serve un’idea di paese, a partire da un nuovo piano industriale che abbia il coraggio di trasformare per crescere. In questo senso credo molto nei fondi legati alla cosiddetta Just Transition, che riguarda le aree dove il rischio di transizione professionale è maggiore. Il Sulcis in Sardegna e l’Ilva di Taranto rappresentano per esempio il nostro tallone d’Achille: luoghi di arretratezza industriale in cui vanno riparate ferite, avendo la lungimiranza di guardare al futuro e lasciandosi alle spalle un passato spesso doloroso. Da ultimo, ricordo che i soldi che ci accingiamo a spendere sono equivalenti a trent’anni di finanziamenti, e che se non ne faremo un uso oculato a pagare sarà soprattutto la generazione dei nostri figli. Sarebbe bello per una volta partire dalle tante punte di diamante industriali nostrane, come la chimica verde, dove il nostro paese detiene la maggior parte dei brevetti a livello mondiale, o i numerosi settori industriali dove gli imprenditori hanno dimostrano negli ultimi decenni di essere più avanti delle istituzioni.

Sta dicendo che l’imprenditoria è spesso più avanti della politica?

Devo dire che la politica, che pure spesso arriva in ritardo, non è l’unica ad avere colpe. C’è infatti un enorme vuoto anche dal punto di vista dell’informazione, della cultura e soprattutto della rappresentanza. Basti pensare che gran parte dei settori più innovativi e green non trovano spazio nei tavoli di lavoro del governo. Confidustria, ad esempio, ha deciso che una buona fetta dell’industria green non meriti di essere rappresentata.

Recentemente lei è uscita per protesta dall'Aula di Montecitorio durante il voto sul decreto Semplificazioni. Cosa manca in quel decreto?

Fermo restando che credo si sia persa una grande occasione e che si continui a procedere senza il necessario coraggio e la necessaria velocità verso la transizione, non ne faccio una questione ideologica ma vorrei invitare a riflettere sull’ordine delle priorità. Mi spiego: abbiamo al momento un Piano Nazionale Integrato Energia e Clima il quale sostanzialmente afferma che se si vogliono portare a casa certi risultati in termini di riduzione di emissioni bisogna spingere sulle rinnovabili. Dall’altra parte, invece, c’è un quadro normativo che così com’è non permette di investire in impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili. Il caso dell’eolico parla da solo: dalla prima autorizzazione all’accensione della turbina passano in media 5 anni. Con il risultato che l’impianto che si va ad inaugurare nasce già vecchio. Non contenti, la stessa difficoltà si ha nel processo di revamping, ossia di rinnovamento dell’impianto, per il quale servono ulteriori asfissianti autorizzazioni. Salvo poi mettere un tetto per le royalties legate all’estrazione di idrocarburi e dare il via libera ai siti di cattura e stoccaggio della CO2. Non ce l’ho con il CCS, ma è sbagliato partire da lì e credo sia contradditorio autorizzare lo stoccaggio della CO2 senza intervenire sulle emissioni alla fonte.

Quando ho lasciato la guida di Legambiente per entrare in politica, ha spiegato che il suo obiettivo è trasformare le battaglie ecologiche in cultura popolare. Che cosa significa? Quale nesso vede tra ecologia e politica?

Esiste un nesso forte tra questi due termini, anche se spesso non si trova il modo di metterli in collegamento. In Italia, ad esempio, manca ancora una proposta ecologista forte. E lo dico da politica ecologista e con grande rispetto per i Verdi che in Italia hanno operato in un clima politico tutt’altro che favorevole. Dobbiamo tutti riconoscere che non basta più avere una buona idea e portarla nei banchi del Parlamento o dentro ai programmi dei partiti. La vera svolta è occuparsi dei processi, osservarli e mettersi al loro servizio. Uscire dalla logica della testimonianza, che già fanno molto bene le organizzazioni ecologiste, e della promessa elettorale. È urgente passare all’azione pubblica, che metta sullo stesso piano l’impegno individuale dei cittadini e la classe dirigente. Se saremo in grado di investire in questo processo collettivo, che parte dal basso e che aspetta solo di essere supportato, avremo quella cultura popolare collettiva che ci permetterà di intraprendere strade coraggiose, e di farlo assieme e senza inutili ideologismi.

L’Italia però sembra in ritardo rispetto ad altri paesi europei circa le battaglie che riguardano l’ambiente.

Non dimentichiamoci che l’Italia non è un paese facile da questo punto di vista. La transizione è considerata un costo, quando va male, o uno sforzo evitabile, quando va bene. In Europa spesso mi trovo a spiegare cosa sia l’abusivismo edilizio, un concetto che da noi fa parte dell’immaginario collettivo ma che all’estero non esiste. Un discorso simile può essere fatto anche per la gestione criminosa dei rifiuti. È brutto da dire, ma quella per l’ambiente in Italia è una guerra di trincea. E in trincea le masse non entrano.