I Power Purchase Agreement (PPA) sono contratti di acquisto di lungo periodo tra produttori e consumatori di energia rinnovabile. Si parla da tempo di una loro possibile diffusione in Italia come naturale evoluzione del mercato post-incentivi, dal momento che le esperienze dei paesi che sono ricorsi ai PPA si sono spesso tradotte in una crescita del mercato delle energie rinnovabili. Ne parliamo con l’Avvocato Lorenzo Parola, Partner di Herbert Smith Freehills, nonché uno dei massimi esperti degli aspetti giuridici legati ai mercati energetici.
I PPA sono ormai una realtà consolidata in alcuni paesi europei e non solo. Cosa ha reso paesi come la Spagna, il Regno Unito, gli USA o i paesi nell’area scandinava pionieri nell’utilizzo di PPA? Stanno decollando anche in Italia?
Relativamente ai paesi europei citati, va innanzitutto sottolineato che esiste un minimo comune denominatore favorevole alla diffusione dei PPA: l’esistenza della supply side del mercato. In altri termini, per la stipula di un qualsivoglia contratto è necessario che vi sia l’incontro tra domanda e offerta e in questi paesi l’offerta c’è, dove per offerta si intende la presenza di impianti rinnovabili utility scale, a differenza (almeno sinora) dell’Italia, di cui tornerò a parlare a breve. Oltre a questo denominatore comune, va poi rilevato che ogni paese ha proprie peculiarità. Ad esempio, in Spagna la diffusione dei PPA ha anche un motivo storico, in quanto il taglio degli incentivi alle fonti rinnovabili è avvenuto prima che in Italia per cui, come si suol dire, di necessità virtù; negli Stati Uniti, è la presenza di uno schema incentivante quale il tax credit ad aver favorito il ricorso ai PPA; nei paesi dell’area scandinava, una delle ragioni va sicuramente ricercata nella possibilità, esistente ormai da diversi anni, di realizzare grandi parchi eolici offshore.
In sostanza, tutti questi paesi si sono dotati di grandi impianti prima di noi, e questo rappresenta il fattore comune che ha caratterizzato la diffusione dei PPA. In Italia, invece, manca ancora l’offerta. Dopo la fine degli incentivi, il mercato è stato dormiente e ad oggi i progetti utility scale autorizzati rappresentano meno di 1GW di capacità. Inoltre, il nostro Paese deve fare i conti con la lentezza e complessità dei processi autorizzativi, elemento che non fa altro che consolidare il nostro ritardo rispetto ad altri paesi europei in materia di PPA.
Quali sono i punti di forza di questi contratti e quali ancora i limiti normativi e regolatori?
Il punto di forza è sicuramente la bancabilità resa possibile dall’ottimale allocazione dei rischi sul lungo periodo che i PPA consentono. Rischi che sono sostanzialmente di quattro tipi: rischio volume, rischio prezzo, rischio di controparte e rischio legale. Grazie ai PPA, ogni rischio viene traslato sul soggetto che è meglio in grado di gestirlo. Vi sono però anche diversi limiti di cui occorre tener conto: 1) la lentezza, farraginosità e stratificazione dei processi autorizzativi italiani che hanno sinora determinato una scarsità di progetti autorizzati, l’obsolescenza delle Linee Guida e l’esistenza di una sorta di potere di veto in capo a ciascuno dei molti enti che vengono coinvolti nell’iter autorizzativo rappresentano indubbiamente un limite. 2) Il secondo limite è legato alle aste, o meglio alla lunga attesa che ha caratterizzato la nascita del DM FER e, in seguito, gli esiti delle aste. Soprattutto per il settore eolico, molti operatori hanno adottato un approccio “wait and see” prima di procedere alla negoziazione di un PPA. 3) Vi è poi un motivo legato all’incertezza generata dalla definizione e consolidamento dell’architettura di mercato anche a livello europeo. Si avranno prezzi negativi? Si passerà a prezzi nodali? Anche se nel PPA il rischio regolatorio è più basso perché non vi sono incentivi, sapere se vi saranno – ad esempio – prezzi negativi è una questione centrale. 4) Vi è poi una ragione più micro, caratteristica dell’Italia, che riguarda il rischio CCT (corrispettivo per l’assegnazione dei diritti di utilizzo della capacità di trasporto e variabile in funzione dei differenziali zonali) e l’indisponibilità, almeno fino ad oggi, di coperture CCC (copertura del rischio di volatilità del CCT) su periodi lunghi. Anche se adesso sembra si stia lavorando in questa direzione, attraverso la messa a punto di aste pluriennali come strumenti di copertura, il rischio CCT è uno degli ostacoli principali che incontro nell’ambito delle negoziazioni di PPA al fine di definire la parte che lo assume anche in un’ottica di bancabilità. In ogni caso, su questo aspetto, ritengo che si assisterà ad un miglioramento vuoi per l’utilizzo di migliori prassi bancarie vuoi perché si renderanno disponibili a tendere coperture pluriennali.
Come ha sottolineato, uno dei temi principali che caratterizza i PPA è l’allocazione del rischio. Lei ha avanzato la proposta di contratti Proxy Revenue Swap. Di cosa si tratta?
I Proxy Revenues Swap (PRS) sono strumenti derivati, generalmente offerti da compagnie assicurative, che mirano a stabilizzare i flussi di cassa. In che modo? Attraverso il PRS il produttore si scherma non solo dal rischio mercato e quindi dalla volatilità dei prezzi dell’energia, ma anche da variazioni di produzione ascrivibili alle condizioni metereologiche (soprattutto nel caso dell’eolico). In tale ambito un leading case è certamente il PRS concluso da Enel con Allianz relativamente alla wind farm High Lonesome situata in Texas da circa 450 MW. In sostanza, pur nella chiara differenza giuridica tra i due tipi giuridici, il PRS produce effetti economici quasi assimilabili a quelli di un contratto di affitto di un ramo d’azienda, nell’ambito del quale si percepisce un canone fisso indipendentemente dall’andamento dell’attività.
Vista la loro crescente diffusione, crede sia opportuno che i PPA vengano standardizzati e regolati a livello comunitario?
Valuto positivamente i tentativi di standardizzazione che sono stati fatti a livello europeo. Il più lodevole è quello messo a punto dalla European Federation of Energy Trader (EFET) sui Corporate Power Purchase Agreement (CPPA). Gli standard proposti possono essere considerati come strumenti di “evangelizzazione” delle best practice e come “database” di clausole a cui riferirsi. Nel fatti il livello di customization che viene richiesto ad ogni singolo PPA è molto alto e dipende da numerose variabili quali la controparte, la data in cui l’impianto diventa operativo, la sua localizzazione, la regolazione a livello locale e così via.
Nella stipula dei contratti di lungo periodo tra produttori e grandi consumatori, un ruolo di primo piano è svolto dal trader. Perché è così importante questa figura?
È importantissima per almeno tre motivi che discendono da un aspetto di carattere regolatorio che non riguarda esclusivamente l’Italia: ad ogni POD (ie punto di consegna) corrisponde un solo contratto di dispacciamento, quindi solo un utente di dispacciamento. Allora come si fa a quadrare il cerchio? Da un lato vi è un produttore da fonte intermittente per sua natura, come quella eolica e fotovoltaica, dall’altro abbiamo ad esempio un’esigenza di approvvigionamento di tipo baseload. A questo punto entra in gioco il trader che riesce a conciliare l’”additività” - che serve al cliente finale per dimostrare che sta perseguendo obiettivi di green labelling e sostenibilità mediante un nuovo impianto rinnovabile - con il profilo di fornitura richiesto dal cliente finale internalizzando al contempo il rischio di sbilanciamento e quello legato al CCT. Pertanto, l’energia che viene fornita è euritmica alle esigenze del cliente finale indipendentemente dal profilo di produzione del produttore.