Esiste ormai una sorta di unanimismo crescente intorno ad una visione acritica e superficiale di ambientalismo “nostrano”, che ritiene che una spruzzata di vernice dalle cento sfumature di verde sia la soluzione dei giganteschi problemi ambientali a livello mondiale. È il risultato della trasformazione dei movimenti ambientalisti in forme elitarie e spesso lobbistiche, che ha finito per staccarlo dal legame con gli obiettivi realistici del miglioramento dei processi produttivi sostenibili, per relegarlo in una sfera di aspirazioni autoreferenziali ed ideologiche, a volte, facilmente strumentalizzabili da forze economiche e politiche di parte.
In Italia, questa regressione culturale e politica sta assumendo connotati allarmanti, che, rischiano di tradursi in una successione di colpi mortali al sistema produttivo del Paese. È un continuo fiorire di proposte ed atti legislativi che ci impoveriscono, distruggendo la nostra base produttiva, senza recare alcun beneficio al sistema ambientale complessivo. La successione di interventi che limitano le produzioni di energie nazionali (produzione ed esplorazione di idrocarburi, geotermia a ciclo integrale chiuso, limitazione contro il diesel, assenza di visione sulla raffinazione, ecc.) avviene in un contesto di consenso plebiscitario e nel totale rifiuto da parte della politica di capire almeno i termini dei problemi. Siamo di fronte ad un canovaccio teatrale in cui tutti recitano la parte che gli altri vogliono ascoltare senza fare alcun tentativo di “orientare” le decisioni. Salvo poche eccezioni, l’assenza delle classi dirigenti del settore energetico e dei movimenti ambientalisti più rigorosi è quasi assordante. Una fuga facile ed ipocrita dalla realtà e dalle proprie responsabilità.
Si afferma di volere dei cambiamenti che si sa perfettamente non essere percorribili, e ci si ferma al clamore di gesti e decisioni inutili e dannosi. Ad esempio, è significativo che gli ultrà contro “le trivelle” siano nello stesso tempo i sostenitori dell'auto elettrica, presentando i combustibili fossili come il passato remoto dell'energia e l'auto elettrica come il futuro dell'umanità. A parte il legame simbolico che si vuole stabilire fra i due elementi (trivelle VS auto elettrica), non esiste nessun legame di causa effetto fra loro. Ridurre la produzione nazionale, non favorisce di certo l'uso dell'auto elettrica, ma solo le importazioni di idrocarburi dall'estero. Circa il 90% delle fonti fossili sono già importate dall'estero. Lo stesso dicasi per la battaglia contro il diesel. A parte il fatto che i diesel Euro 6 sono fra i veicoli meno inquinanti che esistono, ma nessuno dice che limitare la produzione di gasolio implica limitare in modo drastico quella delle benzine e del Jet-Fuel. È un dato di fatto tecnico. Bloccare le auto diesel implica bloccare le auto a benzina ed il trasporto aereo. Siamo pronti a farlo?
Sembrerebbe blasfemo, ma l'ambientalismo di maniera alla fine diventa nemico dell'ambiente. Evitando di riesaminare con pragmatismo tanti luoghi comuni, si finisce per determinare involuzioni dei processi di avanzamento tecnologico, che rimane il fattore decisivo per disporre di energia più pulita e per garantire un ambiente più vivibile. Nel mondo odierno, con le reali alternative esistenti, porre il problema ambientale con il no secco alle fonti fossili, dopo aver detto di no al nucleare, equivale a respingere indietro miliardi di esseri umani e fermare il loro percorso di crescita. Ecco dove si saldano trumpismo ed ambientalismo di maniera. Oggi è difficile affermare a priori quale sarà la soluzione vincente per il futuro. Esiste tuttavia un elemento decisivo per la valutazione del possibile successo delle soluzioni che si vanno profilando: quello del loro possibile utilizzo a livello globale, della sua sostenibilità in tutti i continenti del pianeta.
Il panorama della tecnologia si arricchisce ogni giorno di soluzioni che potranno cambiare rapidamente i termini dei problemi che oggi appaiono insolubili. Alcuni brevetti italiani sembrano, ad esempio, delineare la possibilità di utilizzare la CO2 come materia prima da mescolare con alcuni tipi di rocce, per produrre materiali da costruzione di qualità superiore al cemento. È singolare che “La Proposta di Piano Nazionale Integrato per l'Energia ed il Clima” non faccia alcun riferimento a queste eccellenze italiane e non manifesti né sostegno né interesse. Viene quasi il dubbio che il problema della CO2 sia diventato il grande alibi per giustificare posizioni ideologiche e supporti finanziari a progetti altrimenti non sostenibili. Ripartire dalla realtà del mondo rimettendo al centro la domanda di energia globale per uno sviluppo complessivo sostenibile e soluzioni realistiche per la difesa dell'ambiente è l'unico modo di evitare quelle fughe in avanti delle elites urbane privilegiate del mondo occidentale che, in conclusione, si allineano e danno supporto alle posizioni filo trumpiane, solo apparentemente di segno opposto.
Nel frattempo, stiamo affrontando una crisi della raffinazione, che rimane il cuore del sistema energetico in grado di garantirci la possibilità di una transizione energetica dalla incerta durata temporale. Rischiamo di trovarci ad un certo punto del percorso di cambiamento completamente disarmati e privi delle infrastrutture essenziali per l’approvvigionamento energetico. Non se ne parla, perché ancora ci barcameniamo nella routine quotidiana, ma nel settore petrolifero esistono tante situazioni simili all’ILVA, pronte ad esplodere una dopo l’altra, rendendo il paese vulnerabile e fragile. I combustibili liquidi necessari al sistema italiano dei trasporti sono circa 44 milioni di tonnellate all'anno. Ad oggi, la maggior parte di questi combustibili sono idrocarburi provenienti dal nostro sistema di raffinazione, un vanto del nostro sistema produttivo, che ci permette di mantenere la nostra politica di approvvigionamento nell’ambito della sfera dei rapporti e delle strategie internazionali con i paesi produttori e di restare soggetti attivi all’interno degli equilibri geopolitici mondiali. Ormai da tempo si è avviato un percorso ambiguo, non definito nei tempi e nella dimensione, che dovrebbe portare alla “riconversione” del sistema di raffinazione verso un futuro fatto di “raffinerie verdi e depositi”. Un capolavoro linguistico per sostituire la parola “chiusura” degli impianti con il termine “riconversione”.
Guardando a qualche numero concreto, si ritiene possibile introdurre nel mercato nazionale circa 5 milioni di autovetture elettriche entro il 2030. Se l'obiettivo fosse raggiunto, porterebbe ad una riduzione della domanda di combustibili da idrocarburi di almeno 10-12%, ovvero per un quantitativo pari a 4-5 milioni di tonnellate/anno. Resterebbe la domanda dei rimanenti 40 milioni di tonnellate/anno. Potrebbero poi arrivare sul mercato, utilizzando tutto l’ottimismo possibile, 2-3 milioni di tonnellate di biofuel, anche se non è chiaro dove potranno essere prodotti. Ad oggi esiste solo la produzione di meno di 1 milione di tonnellate proveniente dalle ex-raffinerie di Venezia e di Gela, appena “riconvertite” (serve ricordare che in passato le due raffinerie producevano 8 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi tradizionali). Se pensassimo di sostituire tutti i combustibili da idrocarburi con biofuel, occorrerebbe produrne ancora 39 milioni. Il che vorrebbe dire la creazione di circa 70-80 raffinerie “green” della dimensione di quelle di Venezia e di Gela, un sogno impossibile.
Realisticamente, al 2030 avremo ancora bisogno di circa 30-35 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi per i trasporti. E rimarrebbe aperto il problema del Jet-Fuel per gli aerei, la cui domanda, sempre in crescita, conosce già una forte criticità. Senza un piano strategico per il settore downstream, ci potremmo trovare, ad un certo punto, nella necessità di dover coprire la domanda di 30-35 milioni di tonnellate/anno, facendo ricorso alle importazioni di prodotti petroliferi, acquistati sui mercati spot occasionali. Saremo l'unico paese industrializzato al mondo ad affidare la copertura del nostro fabbisogno ai mercatini, alle “bancarelle” del mercato petrolifero. Sarebbe un grave declassamento dello status internazionale e della sicurezza degli approvvigionamenti. C’è consapevolezza di questi problemi fra i responsabili della politica energetica nazionale, fra i legislatori, fra i leader dei movimenti ambientalisti? La visione del mondo di tanti movimenti verdi, quando non è strumentalmente al servizio di lobbies economiche, è spesso arretrata culturalmente e fossilizzata in visioni di breve periodo. Esaltano il bronzo e non si accorgono che la soluzione starà negli acciai e nei nuovi materiali. E nel frattempo ci obbligano a dissipare risorse enormi per le armi di bronzo, che andranno ad arredare i musei.