Quando 181 CEO delle principali imprese americane decidono che è venuto il momento di riflettere sul ruolo dell’impresa nella società, vuole dire che i tempi sono finalmente maturi per un cambio di direzione. La loro firma in calce al nuovo “Statement on the purpose of a corporation” dell’agosto 2019 rappresenta l’apice di un movimento che da qualche anno si riconosce attorno al concetto di purpose.

Si tratta dell’ultima iniziativa tra molte, quali ad esempio The Purpose of the Corporation Project della Cass School of Business che ha previsto una serie di roundtable con 260 corporate leader per identificare il purpose della corporation. In questo stesso periodo numerose società di consulenza strategiche hanno fatto del purpose un elemento essenziale di ogni cambiamento strategico ed organizzativo. La pervasività del purpose è testimoniata anche dal fatto che Harvard Business Review, la rivista per eccellenza del management vi ha dedicato numerosi articoli, facendone un tema che rivaleggia nell’ultimo biennio con il digitale e le sue conseguenze per frequenza di apparizione sulla iconica rivista americana.

D’altra parte per la rivista Fortune, il 64% degli americani ritiene che l’obiettivo di un’impresa sia migliorare il mondo e 41% dei CEO della lista delle Fortune 500 ritiene che risolvere problemi sociali debba essere parte dell’agenda strategica delle imprese.

Ma quale sia il purpose dell’impresa non è un tema solo contemporaneo. Nella storia delle teorie dell’organizzazione non mancano riflessioni diverse. Chester Barnard negli anni ’30 riteneva il profitto una semplice condizione per far funzionare le imprese, interpretate come il livello evolutivo della specie umana più avanzato. In quegli stessi anni, negli Stati Uniti d’America ci si interrogava sulla controversa legislazione sulla corporation che aveva posto le basi per la separazione netta tra proprietà e controllo con una progressiva marginalizzazione sia degli shareholder sia di altri stakeholder. Berle e Means in un testo fondamentale nella letteratura sulla corporate governance avevano evidenziato come questi limiti richiedessero un aumento della trasparenza e un’estensione dei diritti di voto per evitare una trasposizione dei fini da parte del management e salvaguardare il purpose dell’impresa.

Una posizione radicalmente diversa da quella di Milton Friedman che ha affermato con forza la necessità che l’impresa si preoccupi solo e soltanto di massimizzare i profitti per gli shareholder, in quanto attore specializzato in questo. La sua posizione però almeno nel dichiarato risulta sempre più minoritaria a partire da quando alla fine degli anni ’90 si è sviluppata una visione dell’impresa come multistakeholder e orientata alla responsabilità sociale, antesignana del dibattito contemporaneo sul purpose.

Il termine purpose deriva dal francese dove aveva il significato di portare avanti, farsi avanti, in sostanza un significato attivo, molto in linea con l’idea contemporanea di un’impresa che non si limita a perseguire la sua strategia di prodotto, ma vuole andare oltre.

Chiariamo subito una cosa, però. Il purpose non ha a che fare se non limitatamente con la vision o la mission di un’impresa, che troppo spesso si limitano ad essere trasposizioni verbali generiche. Il vero purpose non è un’operazione di marketing, qualcosa di “esterno all’azienda”, ma rappresenta qualcosa che nasce dall’interno, che viene creato nell’organizzazione. La creazione e la riscrittura del purpose è un processo dinamico e collettivo che partendo dai conflitti potenziali aiuta i diversi stakeholder a trovare un percorso di senso comune.

Il purpose esiste solo nell’ambito di una relazione, non è un’idea astratta, non è un obiettivo individuale, ma un senso di direzione che si imposta all’interno di un complesso di relazioni sociali con attori diversi. Ciò che lo rende complesso è il fatto che in esso convivono elementi formalizzabili e articolabili nel linguaggio e elementi che si traducono in intenzioni, emozioni e sensazioni. Se usiamo la metafora del viaggio assieme, nel purpose convivono il piano che definisce la meta iniziale, le modalità con le quali si viaggia, ciò che nel viaggio si incontra, i vissuti assieme durante il viaggio e le scelte che spostano la meta o la durata del viaggio.

Nella mia prospettiva, il purpose scaturisce da un’attività di “collective sensemaking”, dove per sensemaking intendiamo quel processo grazie al quale gli stimoli che derivano dalla realtà sono collocati all’interno di uno schema di interpretazione che ne definisce il significato; per il purpose il sensemaking è collettivo perché questi significati devono essere condivisi dai diversi stakeholder interessati all’impresa. Perché si possa definire un purpose è necessario un livello di interesse alla relazione reciproca sufficiente tra tutti gli stakeholder coinvolti.

Ne deriva che senza un minimo livello di investimento positivo nella relazione non può esserci purpose. Se gli stakeholder interni o esterni sono distaccati emotivamente dall’organizzazione e non si fidano, gli spazi per l’emersione di un vero purpose sono annullati. Addirittura, in un certo qual senso, un progetto di purpose potrebbe risultare controproducente perché facilmente interpretato come un maldestro tentativo di manipolazione delle persone con conseguenze potenziali molto negative al tempo del digitale. Anche perché non è possibile riflettere sul purpose senza porsi il tema dell’impatto del digitale. Un elemento centrale del digitale è l’allargamento dei pubblici che si interessano dell’impresa e del suo purpose e l’acquisizione di sempre maggior peso da parte dei movimenti sociali. L’impatto che hanno avuto Greta Thunberg con la sua crociata sull’ambiente e il clima, i movimenti LGBTQ o le iniziative del #MeToo sulle imprese segnalano una sempre più ampia capacità di influenza anche da parte di audience limitate, ma ben focalizzate su interessi collettivi da rappresentare nei confronti delle imprese.

Purtroppo, molti leader approcciano il purpose come qualcosa di statico, seguendo l’approccio della realizzazione “mission statement” o investendo in costose iniziative di consulenza limitate ai vertici strategici. Ma non è questa la natura del purpose, che per propria natura è dinamico, perché comprende elementi legati all’azione e alla motivazione dei membri dell’organizzazione che sono essi stessi per loro natura dinamici. Per poter sviluppare un purpose dinamicamente è utile adottare una logica non lineare, ma obliqua. La logica lineare vede lo sviluppo del purpose come un processo fatto di step codificati: analyze, design and execute/built. La logica obliqua crea invece collegamenti fra le cose senza disporli in una sequenza lineare e produce affermazioni come: “community first, company second”. E’ questa la logica che usiamo anche con riferimento alle nostre motivazioni personali producendo affermazioni come “La famiglia prima di tutto, il resto verrà di conseguenza”. Usando questa logica elementi diversi possono coesistere ed essere rimodellati dinamicamente.

Il leader che emerge è sempre meno un condottiero, un decisore, ma anche sempre meno un orchestratore. Un tale leader è un raccontatore, un cantastorie che altera ogni volta un po’ la trama del purpose perché assorbe e associa le interazioni che ha con i diversi stakeholder. È un leader umile, ma mai dimesso perché sa che il bandolo della matassa della trama del purpose passa inevitabilmente per il suo ruolo. Per essere credibile in questo percorso deve esserci, deve dare corporeità alla sua narrazione ed uscire dallo schermo dello storytelling delle funzioni di comunicazione e di relazioni esterne. Deve sapere attivare codici molto diversi rispetto alla monotonia dei numeri e della razionalità tecnico strumentale, ma non può dimenticarli. In un ennesimo paradosso, il leader deve contribuire a costruire il purpose mentre viene da esso guidato.

Anche perché il purpose conta. Secondo una ricerca di Gartenberg, Prat e Serafeim del 2019, basata su 500.000 intervistati, le imprese a purpose elevato, ovvero quelle dove il middle management percepisce un forte senso di comunità e totale chiarezza e trasparenza da parte del top management, hanno performance migliori sia dal punto di vista dei risultati economici sia dal punto di vista del mercato finanziario.