Sono nato nella campagna marchigiana, nel crocevia di tre abbazie importanti della cultura benedettina (S. Elena, S. Romualdo e S. Urbano), da una famiglia di agricoltori. Il patrimonio culturale dei monaci benedettini e quello familiare delle origini contadine hanno determinato il modello e i valori dell’impresa che ho fondato con mia moglie Graziella. In qualche modo il “purpose”, lo scopo più alto del fare impresa si origina e si alimenta proprio da queste radici.
I monasteri benedettini, infatti, raccolsero la necessità di organizzare un territorio, di portare a valore gli antichi e nuovi saperi e, attraverso l’oggettività del metodo, di divulgarli.
Dalla cultura contadina impariamo l’importanza dei valori della tradizione, la fiducia con una stretta di mano, l’abitudine a lavorare nell’incertezza delle stagioni, la diversificazione delle colture per ridurre il rischio, la forza di ricominciare comunque.
In oltre cinquant’anni di lavoro, ci siamo dati delle linee guida che abbiamo riassunto in una Carta intitolata Noi siamo 2068: il nostro impegno per i prossimi 50 anni.
Al primo posto c’è vivere l’impresa come un bene sociale, che genera lavoro, ricchezza e identità nel territorio. L’impresa non è solo proprietà privata, ma bene comune: non c’è impresa senza territorio, non c’è territorio senza impresa. L’impresa è un progetto di futuro, genera un nuovo modo di vedere le cose: allora le persone si aggregano intorno ad un’idea e l’impresa diventa un hub in cui si integrano persone, idee e tecnologie.
La figura dell’imprenditore e del fare impresa in Italia è a volte screditata dal concetto che chi guadagna è uno sfruttatore. Invece il ruolo dell’impresa, come ci insegna Olivetti, può essere quello di organizzatore di un territorio, animatore di una comunità, ispiratore dello sviluppo personale e sociale.
In secondo luogo, c’è l’impresa come bene economico, che ha il dovere di fare profitto. L’imprenditore ha la responsabilità di dare continuità al lavoro e condivide quest’impegno anche con i collaboratori, che non lavorano solo per lo stipendio, ma per mantenere e sviluppare il proprio lavoro, la propria identità professionale e quella degli altri. Da qui l’importanza fondamentale delle persone. Senza persone non ci sono né profitto né soluzioni: l’attenzione alle persone diventa un fatto di necessità. Se le persone sono coinvolte producono idee e soluzioni. Noi progettiamo soluzioni su misura per i nostri clienti in tutto il mondo, macchine per controllare e migliorare la qualità di prodotti e processi. Sono i collaboratori, insieme ai clienti e anche ai fornitori, a trovare le soluzioni, a realizzarle, ad installarle, affinché continuino a produrre valore nel tempo.
Solo se si è produttori di ricchezza, si può condividere. Come si dice dalle nostre parti “la miseria non se sparte” (la miseria non si condivide). Il profitto, lo dice la sua etimologia (pro-ficere), serve per fare, quindi bisogna chiedersi come reinvestire il profitto nell’impresa in quanto mezzo e non fine ultimo.
Nei primi 25 anni dell’impresa, non è mai stato fatto profitto; successivamente, grazie all’investimento sui giovani, all’innovazione, all’internazionalizzazione, abbiamo iniziato a recuperare autonomia finanziaria e ad avere profitti da reinvestire in progetti di sviluppo. Questo è andato di pari passo con un sempre crescente coinvolgimento dei collaboratori, dei clienti, dei fornitori e della comunità territoriale.
La linea guida è reinvestire il risultato nell’impresa e, quindi, sui clienti e sulle persone che sono i due elementi fondamentali, ma anche sul territorio, per ciò che concerne lo sviluppo funzionale dell’impresa. Non investiamo in sponsorizzazioni, beneficienza o restaurazioni, ad esempio dei monumenti nella piazza principale della città, per un fatto di immagine, quanto piuttosto in iniziative funzionali al lavoro, in modo da alimentare l’idea di progetto e il coinvolgimento delle persone.
Ad esempio con le scuole, con cui abbiamo dall’inizio instaurato un rapporto strettissimo e con cui portiamo avanti innumerevoli progetti. Dall’ospitalità di oltre 1.000 studenti ogni anno, alla formazione per gli insegnanti (oltre 500 coinvolti) sul coding e la saggezza digitale, dal coinvolgimento delle scuole primarie e secondarie del territorio, a progetti e accordi con le Università. In questo modo non solo si divulga cultura d’impresa nel territorio, ma si crea e si alimenta un “vivaio” di giovani e giovanissimi dentro cui sarà possibile individuare i collaboratori futuri dell’impresa.
Un altro esempio è il progetto “2 chilometri di futuro®”, realizzato in 4-5 anni, su cui si sono investiti 5-6 milioni di euro. È il progetto di adozione di un tratto del fiume Esino, che scorre tra i laboratori Loccioni. Da minaccia di inondazioni e disastri (era esondato nel 1990 mettendoci in ginocchio), il fiume diventa una risorsa, con la produzione di energia idroelettrica che alimenta la nostra micro-grid energetica, con un laboratorio per la sicurezza delle infrastrutture e monitoraggio delle piene, con una nuova pista ciclabile e la progettazione del paesaggio: benefici per l'intera comunità che, oltre alla sicurezza, recupera il valore culturale delle storie e delle tradizioni del fiume.
Un investimento interamente privato (di Loccioni), in un progetto pubblico-privato (il fiume è una proprietà pubblica) che è diventato un laboratorio per l'innovazione sociale e il design, con il supporto di geologi, ingegneri ambientali e architetti del paesaggio.
Progetto “2 chilometri di futuro®”, fiume Esino
Anche con l’Azienda Ospedali Riuniti di Ancona, l’ospedale regionale, abbiamo sviluppato una partnership innovativa: abbiamo creato un laboratorio di progettazione congiunta, in cui si sviluppano soluzioni per migliorare la qualità della cura (ad esempio il robot Apoteca che prepara in automatico e senza possibilità di errore le dosi di farmaci per le terapie personalizzate). L’ospedale stesso, attraverso pubblicazioni e convegni, diventa nostro ambasciatore e oggi i nostri sistemi Apoteca lavorano nelle farmacie dei migliori ospedali del mondo, dagli Stati uniti al Giappone.Il nostro ultimo progetto Pubblico – Privato è la Valle di San Clemente, una bellissima quanto sconosciuta vallata dove si trova l’Abbazia di Sant’Urbano, un complesso benedettino del 1000 e una serie di terreni di proprietà del Comune di Apiro. Con lo strumento del partenariato pubblico-privato, la nostra impresa si è assunta la responsabilità, in accordo con l’amministrazione comunale, non solo di valorizzare il bene culturale, ma soprattutto di rigenerare la valle, attraverso la creazione di lavoro e imprenditorialità, invertendo il trend dello spopolamento delle aree interne e coinvolgendo i giovani. Come prima cosa, infatti, stiamo investendo nella formazione dei giovani locali, affinché prendano consapevolezza delle potenzialità del territorio e contribuiscano a ripensare la Valle e a progettare insieme il suo futuro di rigenerazione. Anche qui l’elemento chiave è l’individuazione di uno scopo, personale e comunitario, che sia interiorizzato e condiviso. Partendo dai valori della terra, dalla tradizione agricola locale, dalla geologia, dalla specificità del suolo e del sottosuolo, si va a delineare un modello di riferimento per la valorizzazione e rigenerazione delle aree interne. L’agricoltura del futuro, la scienza dei dati, la robotica e i sistemi interconnessi, l’internet delle cose e il nuovo artigianato digitale, la sostenibilità e la qualità della vita, sono gli spunti di progetto con cui riportare lavoro e persone nella valle. La Valle di San Clemente vuole essere uno dei primi esempi concreti di economia circolare, dimostrando che è possibile mettere in equilibrio uomo e natura, tradizione e innovazione.
Elemento essenziale nella progettazione del purpose e nel coinvolgimento è la capacità di guardare a lungo termine. Si tratta di investire il profitto, che si ottiene con attività “veloci” poiché industriali, per trasformarlo in patrimonio nel medio-lungo periodo, con attività “lente” su cui non investe più nessuno, perché il risultato si ottiene in più di 3 anni. “Gli anni conoscono cose che i giorni non vedono” ci insegna Adriano Ciaffi: in 10 anni si generano non solo nuove occasioni di lavoro e nuove opportunità, ma si sviluppa cultura, il vero volano dello sviluppo e del successo. L’impresa diventa così, oltre che bene sociale e bene economico, anche bene culturale, che si fa carico di codificare, trasmettere e rendere disponibili a tutti metodi, modelli, valori, storie di vita, buone pratiche dentro e fuori l’impresa.
Se dovessi riassumere il nostro “purpose”, lo scopo che ci guida ogni giorno e che cerchiamo di condividere con la nostra comunità locale e internazionale, lo troverei nelle parole di un vecchio prete di campagna che un giorno mi ha detto: “Mi raccomando Enrico, siamo tutti usufruttuari e non ci portiamo via niente. L’importante è lasciare un po’ meglio di come abbiamo trovato”.
È questa la bellezza del fare impresa, è questa l’impresa di seminare bellezza.