Dopo molti anni di operatività, gli impianti industriali arrivano alla fine della loro vita utile e devono essere smantellati. Questo processo complesso e costoso, noto come decommissioning (al contrario il commissioning è l'inizio del ciclo di vita di un impianto), implica una serie di sfide di carattere economico, ambientale, fisico e normativo. Per decidere quando un impianto industriale diventa "idle iron" - definizione utilizzata nel Golfo del Messico (GoM) – sono necessarie dettagliate analisi in cui si tiene conto di molteplici fattori quali i prezzi delle materie prime, i costi operativi, le riserve residue e i relativi regimi regolatori.

Una volta presa questa decisione, i passaggi successivi prevedono il coinvolgimento di manodopera altamente specializzata per garantire che le attività di smantellamento avvengano in modo sicuro ed efficiente, e al contempo, sostenibile per l'ambiente. Oltre alle rilevanti complessità operative che questi interventi comportano, gli operatori devono anche essere in grado di districarsi tra le diverse e numerose normative nazionali in materia di ambiente e gestione dei rifiuti.

Ma cosa avviene in pratica? Nel caso di un'attività offshore Oil & Gas (O&G), ad esempio, le fasi di decommissioning richiedono la sigillatura del pozzo, la rimozione della piattaforma e degli impianti sottomarini e il ripristino delle condizioni ambientali iniziali. È necessario predisporre un adeguato contenimento e smaltimento di sostanze e materiali pericolosi; porre rimedio a qualsiasi potenziale effetto negativo sugli ecosistemi marini; e procedere alla rimozione di eventuali detriti accumulati sul fondale.

A prima vista, tutto questo potrebbe far ritenere che gli operatori possano iniziare a considerare queste complessità solo nel momento in cui stiano concretamente valutando di smantellare un impianto, ma non è affatto così - tutt’altro.

Recenti operazioni di fusione e acquisizione stanno, infatti, dimostrando come valutazioni inerenti al decommissioning entrino in gioco molto prima che un asset diventi "idle iron", e possano addirittura far fallire le transazioni. Ciò è particolarmente vero in aree come la Piattaforma Continentale del Regno Unito: regione, dove le normative relative alle operazioni di decommissioning sono particolarmente onerose e il prezzo che un acquirente è disposto a offrire per un determinato asset risente negativamente sia dell’elevato costo intrinseco di queste operazioni sia della necessità di fornire garanzie a copertura delle associate passività e rischi.

Ciò non ha comunque impedito alle principali compagnie petrolifere internazionali (International Oil Companies: IOC) di portare a termine con successo strategie di disinvestimento di asset non-core e in declino produttivo, al fine di rafforzare i propri bilanci e ridurre il debito. Tuttavia, ciò è stato possibile solo grazie ad accordi innovativi, che prevedono il mantenimento in capo alle IOC di parte delle passività connesse alle attività di decommissioning. Così facendo, infatti, il venditore è in grado di ridurre il profilo di rischio dalla transazione, aumentare la commerciabilità degli asset e pertanto la possibilità di ottenere valutazioni più elevate. Ne è un esempio, la cessione da parte di Shell a Chrysaor di asset situati nel Mare del Nord, avvenuta nel 2017. La transazione è stata possibile solo perché Shell ha accettato di mantenere a proprio carico 1 miliardo di dollari dei costi complessivi di decommissioning, stimati intorno ai 3,9 miliardi di dollari.  

Come mai solo recentemente le attività di decommissiong iniziano a essere sotto i riflettori di tutti gli stakeholder? La ragione risiede nella nostra insaziabile sete di energia. Nel corso degli anni, nel solo comparto O&G offshore, sono stati investiti miliardi di dollari per realizzare le infrastrutture necessarie a portare combustibili fossili verso mercati caratterizzati da una domanda energetica crescente. Man mano che questi impianti si avvicinano alla fine della loro vita produttiva, l'industria del decommissioning aumenta rapidamente in termini di dimensioni e portata e diventa sempre più una sfida globale.

Alla fine del 2016, IHS Markit stimava che la spesa per il decommissioning di impianti O&G offshore sarebbe passata dai circa 2,4 miliardi di dollari del 2015 a 13 miliardi l'anno entro il 2040. Ma già nel 2018 ci si è avvicinati ai 6 miliardi di dollari, cifra che dovrebbe portarsi a 9,5 miliardi entro il 2027.

È comunque importante rilevare che sebbene l’O&G sia sicuramente il settore maggiormente interessato dalle operazioni di decommissioning in ambito offshore, non sia l’unico. Nel 2015 per la prima volta al mondo, è stato smantellato il parco eolico offshore svedese Yttre Stengrung. Era una piccola wind farm caratterizzata da un design unico che ne ha comportato il decommissioning anticipato, dopo solo 27 anni di operatività. Tuttavia, nessun impianto – anche se riceve una buona e continua manutenzione – può durare per sempre; pertanto, con la crescente diffusione dell’eolico offshore, le attività di smantellamento cresceranno anche nel settore delle energie rinnovabili.

Dato che l’industria del decommissioning è nata da poco, è difficile valutare costi, durata e portata di queste operazioni perché vi sono ancora pochi riferimenti validi cui attenersi. Guardando al futuro, sarà quindi necessario che gli operatori e i regolatori lavorino insieme per definire un insieme integrato di soluzioni che consentano di gestire strategicamente le complessità finanziarie, operative, ambientali e regolatorie che caratterizzano tale ambito.

In quest’ottica, si raccomanda un approccio al decommissioning che tenga in considerazione i seguenti aspetti:

-          Inclusione dei costi e delle passività del decommissioning già nella fase di valutazione di nuovi progetti. Compagnie asset-intensive come quelle O&G (ma vale anche il settore nucleare e quello elettrico in generale) dovrebbero poter contare su un’adeguata valutazione dei costi e delle passività legate allo smantellamento degli impianti fin dallo studio di fattibilità di nuovi progetti. Questo poiché simili considerazioni possono avere un impatto economico rilevante sul portafoglio progetti di una società.

-          Definizione di regimi regolatori chiari e delle migliori pratiche di gestione a livello globale. Questo aspetto è necessario sia per permettere alle imprese di valutare correttamente le normative ambientali e i regimi fiscali delle diverse aree del mondo in cui operano sia per consentire ai governi di poter contare su operatori più responsabilizzati in materia di decommissioning.

-          Sviluppo di nuove forme di collaborazione pubblico-privato alla ricerca di alternative innovative e ambientalmente sostenibili al decommissioning. Come ad esempio il programma Rigs to Reef nel GoM, che converte piattaforme O&G dismesse in barriere coralline artificiali, e/o l’utilizzo di aree abbandonate (c.d. brown fields) per la costruzione di parchi solari. Tutti gli stakeholder saranno così in grado di massimizzare il valore di questi investimenti.

-          Un approccio coordinato pubblico-privato per demistificare le operazioni di smantellamento e garantire che le comunità locali e l’opinione pubblica in generale abbiano un’adeguata percezione di questo processo. È convinzione diffusa che gli operatori siano portati a rinviare le operazioni di decommissioning, prolungando l’attività degli impianti il più a lungo possibile.

La sfida globale del decommissioning riguarda tutti noi ed è quindi necessario che questi progetti siano eseguiti in modo sicuro e portati avanti con successo.

La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di RiEnergia. La versione inglese di questo articolo è disponibile a questo link