Le perforazioni offshore di petrolio e gas costituiscono spesso motivo di dibattito presso le comunità locali che le ospitano, e la California non fa certo eccezione, specie dopo che, nel 1969, una piattaforma al largo di Santa Barbara riversò dagli 80.000 ai 100.000 barili di greggio in mare in seguito ad un guasto. Se per anni, però, il dibattito è ruotato intorno all’operatività degli impianti, oggi la questione riguarda quelle 27 piattaforme sparse lungo la costa che, giunte a fine vita, devono essere smantellate completamente o, al contrario, lasciate lì dove sono e convertite in barriere artificiali.

Sappiamo, infatti, che in California come altrove, diverse migliaia di pesci e milioni di invertebrati sfruttano le piattaforme petrolifere come habitat marino ideale e protetto. Per questo motivo, in collaborazione con le associazioni e cooperative di pescatori, le compagnie energetiche hanno talvolta convertito le proprie piattaforme dismesse in strutture artificiali protette sia nel Golfo del Messico statunitense che nel Brunei e in Malesia.

I californiani sono particolarmente gelosi della propria spettacolare costa e non sono mancate critiche sul concetto di rig-to-reefs. Alcuni gruppi ambientalisti ritengono che le piattaforme abbandonate potrebbero rilasciare in acqua sostanze chimiche tossiche e costituire un pericolo per la vita sottomarina. Viceversa, i sostenitori del programma di conversione affermano che la dismissione provocherebbe la perdita di ecosistemi complessi e molto produttivi che varrebbe la pena lasciare al loro posto.

Gli autori del presente  articolo sono un ex ricercatore del Dipartimento dell'Interno degli Stati Uniti e un biologo marino da sempre attendo studioso dei pesci che caratterizzano la costa del Pacifico. In un recente studio, abbiamo ripercorso la recente storia delle conversioni rig-to-reefs ed esaminato decenni di pubblicazioni scientifiche incentrate sul monitoraggio degli effetti generati da simili progetti. Sulla base di questa analisi possiamo concludere che la trasformazione da piattaforma a reef è un'opzione praticabile nel caso specifico della California. E potrebbe addirittura costituire un modello per la dismissione di alcune delle 7.500 piattaforme offshore che operano in tutto il mondo.

Ecosistemi inaspettati

Le piattaforme petrolifere offshore sono progettate per resistere a uragani e terremoti, ma non per essere permanenti. Quando raggiungono la fine della loro vita utile, in genere dopo circa 25-50 anni di attività, le leggi federali e statali impongono alle compagnie energetiche di smantellarle. Questo, solitamente, si traduce in una rimozione completa della piattaforma e della struttura di supporto sommersa, riportando il fondale marino alla sua condizione iniziale. Solo in alcuni casi la dismissione potrebbe non interessare tutta la struttura e lasciare parte della piattaforma in loco.

Gli impianti di cui parliamo non sono stati progettati con l'intento di creare reef artificiali, eppure i loro sistemi di supporto costituiti da strutture reticolari in acciaio - chiamati "jackets" - attraggono un gran numero di invertebrati che si adagiano su di essi. A loro volta, queste creature attirano diverse specie di pesci, dando vita ad un ecosistema che può resistere alla ruggine per diverse centinaia di anni.

Tornando al caso della California, una miriade di invertebrati ricopre la rete di tubi di acciaio delle piattaforme marine. Milioni di cozze, stelle marine e anemoni dai colori vivaci lottano per ottenere un po’ di spazio, creando una trapunta naturale di motivi e trame. Anche i pesci, grandi e piccoli, frequentano questo ambiente, con branchi di centinaia di migliaia di giovani scorfani che nuotano nelle profondità sottostanti le piattaforme petrolifere.

Video: cosa c’è sotto le piattaforme petrolifere

Creare un nuovo habitat

Da secoli gli esseri umani hanno cercato di migliorare i risultati dell’attività di pesca con barriere artificiali, utilizzando materiali che vanno dal legno, alla roccia, al cemento, sino alle navi dismesse. L'idea delle strutture reticolari si è sviluppata dopo che le compagnie Oil&Gas hanno iniziato a costruire piattaforme nel Golfo del Messico alla fine degli anni ‘40. Sistemi in acciaio in grado di fornire un habitat “solido” per la fauna marina su un fondale altrimenti “morbido” e che, nel tempo, sono diventati una meta molto ambita per i pescatori della zona.

L'installazione di migliaia di piattaforme ha determinato un aumento delle specie di pesci in tutta l’area, sia in termini di quantità che di qualità, come nel caso del costoso dentice.

A metà degli anni '80, la Louisiana legiferò a favore del primo sistema di barriere coralline artificiali degli Stati Uniti al largo delle sue coste. Un programma pensato per sfruttare le opportunità di pesca legate alla presenza di piattaforme obsolete e per incoraggiare le compagnie energetiche a convertire le strutture dismesse in reef. Da allora, sono oltre 500 gli impianti sommersi che nel Golfo del Messico, dal Texas all'Alabama, sono stati riadattati in ottemperanza alle linee guida dei programmi statali sulla creazione di barriere artificiali.

Le piattaforme sono generalmente costituite da due parti distinte: la parte superiore, che fuoriesce dall’acqua, e la struttura di supporto che si trova sott’acqua. Per salvaguardare il reef, le compagnie energetiche rimuovono completamente la parte superiore e la portano a riva dove viene riciclata o parzialmente riutilizzata. Nel Golfo del Messico, così come altrove, è possibile che la struttura reticolare sottomarina venga collocata in una nuova posizione o rovesciata sul fondo del mare; oppure, la parte superiore della piattaforma – che è stata rimossa - può essere tagliata e affiancata al jacket  sul fondale.

La legge della California attualmente consente solo la rimozione parziale o il “taglio” della parte superiore. In questo modo il jacket sottomarino rimane intatto e in loco, il che rappresenta la soluzione meno impattante per la creazione della barriera.

Un aiuto o un ostacolo per la fauna marina?

Nel Golfo del Messico, le piattaforme convertite in reef hanno visto aumentare significativamente la quantità di pesci, diventando popolari siti di pesca e di immersioni subacquee. In California, nella maggior parte delle aree limitrofe alle piattaforme in produzione non è consentita la pesca: non è quindi assurdo ritenere che abbiano per decenni svolto una funzione di riserva marina protetta, a beneficio soprattutto delle specie più sfruttate.

Ad esempio, gli scienziati hanno trovato un numero maggiore di pesci adulti di alcune specie - come il pesce bovino e il bocaccio – sotto le piattaforme che non in prossimità delle barriere naturali. Una quantità più elevata di adulti in grado di riprodursi rende, inoltre, probabile che un numero maggiore di larve venga rilasciato nell'ecosistema da specie che vivono sotto le piattaforme piuttosto che da quelle che risiedono nelle vicine aree naturali oggetto di pesca.

Sebbene alcune piattaforme siano già state rimosse al largo della California meridionale, nessuna è stata ancora oggetto di conversione. Anni di studi scientifici nelle acque della California hanno portato all'emanazione del Marine Resources Legacy Act del 2010, che ha sdoganato e riconosciuto il concetto di rig-to-reefs. Ad oggi sono sei le piattaforme che stanno muovendo i primi passi verso una dismissione che porterà ad una conversione in barriera marina artificiale: Holly, nelle acque statali; Grace, Gail, Hermosa, Hildago e Harvest nelle acque federali.

Si tratta di un processo costoso, tecnicamente complesso e lungo. E poiché richiede una pianificazione complicata, è probabile che le compagnie petrolifere prendano in considerazione la dismissione di più piattaforme contemporaneamente, in modo da fare economie di scala. E se da un lato, la conversione in reef si tradurrà in un risparmio per l'industria petrolifera, dall’altro sarebbe giusto che questo risparmio venisse condiviso con lo Stato, magari creando fondi per altri interventi di conservazione marina.

La dismissione totale o parziale delle piattaforme genererà impatti ambientali e socioeconomici, sia positivi che negativi. Gli abitanti della California, che dalla metà degli anni ‘90 non hanno avuto modo di discutere e chiedersi cosa dovrebbe accadere alle piattaforme dismesse, ora hanno l'opportunità di approcciare questa tematica valutando un aspetto prima non considerato, e decidere il destino di una risorsa inaspettata ma non per questo biologicamente poco importante.

L’articolo qui proposto è stato pubblicato il 15 maggio 2019 sulla rivista online “The Conversation”. La traduzione, previa autorizzazione degli autori, è stata curata dalla redazione di RiEnergia. L’articolo originale è consultabile al seguente link