Il 2019 potrebbe essere un anno fondamentale per ripensare il ruolo delle materie plastiche nella società attuale. Se da una parte la sua versatilità si sposa bene in applicazioni di alto livello in ambito medico, elettronico, automobilistico, dall’altra, la plastica, è stata spesso categorizzata come simbolo di un’economia dell’eccesso che ha fatto dei fast-moving-consumer-good un’ancora di salvataggio dando vita alla società dell’usa e getta che ha letteralmente inondato il mondo di rifiuti. I ritmi sfrenati di questi decenni non hanno impedito tuttavia all’umanità di riflettere sulle proprie responsabilità individuali rispetto all’ambiente e qualcuno ha già iniziato a porsi delle domande e ad agire per cercare di invertire un trend pericoloso.
Tante sono le iniziative nate negli ultimi anni volte a minimizzare l’uso della plastica o il suo impatto sul pianeta: un numero sempre più consistente di attività economiche e commerciali sta convertendo i modelli di produzione e vendita optando per materiali riciclati, in bioplastica e generalmente più ecologici; le aziende più facoltose stanno ripensando il proprio modello di business transitando da un’economia di prodotto a una di servizio; le borracce fornite da presidi e rettori nelle scuole e nei centri di ricerca motivano gli studenti ad adottare un comportamento sempre più sostenibile; piani di comunicazione, formazione e informazione sono al centro delle agende politiche nazionali e regionali.
Tuttavia, nonostante questa moltitudine di azioni, c’è ancora tanta confusione rispetto alla tematica di base. Ciò che è certo è, ovviamente, l’esistenza del problema che inizia a delinearsi già nel 1997 quando il velista Charles Moore si imbatte nella nota Great Pacific Garbage Patch, il più grande accumulo galleggiante di residui plastici situato tra la California e le Hawaii. Negli anni si è poi scoperto come la plastica sia una presenza incontrastata in quasi tutto il globo. La più grande ricerca mai fatta prima sul cosiddetto Marine Plastic pollution è stata pubblicata nel febbraio 2015 da un team di ricercatori che hanno stimato il contributo di ogni popolazione costiera all’immissione di rifiuti plastici in mare.
Contributo dei diversi paesi al marine littering nel 2010
Fonte: Jambeck et al., 2015
Come si vede dall’immagine, ogni popolazione contribuisce al marine littering per quantitativi annuali che vanno da 1,1 a 8,8 MT di rifiuti plastici. Se nulla viene fatto, rimanendo quindi in un’ottica di Business as usual, questi numeri andranno ad aumentare di un ordine di grandezza da qui al 2025. I dati sono così drammatici che il report Global Opportunity stima che al 2050 troveremo più plastiche che pesce nei mari.
E il mare non è l’unico ecosistema impattato da questi materiali. Tracce di microplastiche (plastiche con dimensioni variabili tra 5mm e 330 µm) sono state rinvenute anche nei ghiacciai artici situati a centinaia di chilometri dagli insediamenti umani. La plastica è nel pesce che mangiamo, nel sale che usiamo per la pasta e nell’acqua che beviamo. È letteralmente ovunque e i suoi effetti sono già visibili nei numerosi animali marini trovati spiaggiati a causa di uno stomaco troppo “plastico”. Recenti ricerche mostrano come alcuni costituenti dei materiali plastici come Bisfenolo A, ftalati, stirene e ritardanti di fiamma bromurati, possono interferire con il sistema ormonale causando infertilità, ritardi cognitivi e ostacoli al neurosviluppo della prole. Tali studi sono ancora in una fase primordiale. Infatti, la plastica impatta sia direttamente, se ingerita, che indirettamente per le emissioni generate in fase di produzione, trasporto, smaltimento etc.
Tali impatti sono difficilmente misurabili, sia in termini ambientali che economici. Ad esempio, vi sono studi che stimano il costo annuo dell’inquinamento oceanico a $33.000 per tonnellata di plastica. Se si dovesse tener conto di tutte le esternalità, il costo dell’impatto della plastica sul pianeta (esseri animali e umani compresi) sarebbe immisurabile.
Di fronte a quella che viene definita la crisi del nuovo millennio, chi per prima ha deciso di dare un segnale forte a voler cambiare l’attuale modello di produzione e consumo è la Commissione europea. La plastica è stata infatti inserita come materiale strategico nell’action plan sull’economia circolare nel 2015. Nel 2018 è stata pubblicata la prima policy specifica per un determinato materiale e con un approccio orientato al ciclo di vita. Infatti, la Strategia Europea per le plastiche in un’economia circolare si pone il non facile obiettivo di ripensare completamente il ciclo di vita di questi materiali in una visione integrata (che parte dal design, continua con la fabbricazione, l’uso e valorizzazione in un ciclo continuo) e in linea con quella che è la gerarchia dei rifiuti dove la prevenzione deve essere prioritaria a qualsiasi altro mezzo di efficientamento, incluso il riciclo. Mentre il riciclo è il punto cardine delle Direttive (UE) 851 e 852/2018, rispettivamente sui rifiuti e sugli imballaggi e rifiuti da imballaggio, la prevenzione è presente in maniera frammentata in molteplici direttive e regolamenti.
Tuttavia, il concetto di prevenzione non è mai stata tanto forte quanto nella Direttiva sulla plastica usa e getta (single-use plastics, SUPs) pubblicata a Giugno 2018. Nella direttiva in questione, oltre a misure volte a migliorare il design e la raccolta delle bottiglie, sono state inserite restrizioni di commercializzazione per quegli articoli monouso per i quali esistono alternative sul mercato. In particolare, posate, piatti, bastoncini cotonati, cannucce, mescolatori per bevande e aste dei palloncini, oltre che contenitori in polistirolo, verranno vietati a partire dal 2021. Questa policy ha suscitato reazioni da tutto il mondo industriale, soprattutto in Italia dove si concentra il più alto numero di aziende produttrici di stoviglie con un fatturato annuo di circa 850 milioni. La Direttiva è stata comunque sostenuta da un movimento pro-attivo che si riassume bene nello slogan #plastic-free adottato dal programma #IoSonoAmbiente del Ministero dell’Ambiente.
Ad oggi si contano più di un centinaio di ordinanze comunali e due leggi regionali. L’estate calda dei ricorsi al TAR in Abruzzo, Puglia, Sicilia e Sardegna motivati da una non urgenza dell’azione in sé, un negativo riflesso sull’economia locale e una mancanza di competenza legislativa sintetizza le forze in gioco che si contendono i frutti della Direttiva. Altre dispute sono nate in seno alle policy regionali: Marche e Toscana sono state le prime a recepire la Direttiva SUPs. Tuttavia, mentre la legge Marche plastic free è rivolta a Province e Comuni, a strutture sanitarie pubbliche e private accreditate, a istituti e mense scolastiche, e a chiunque svolga attività economica in area demaniale marittima o organizzi eventi e manifestazioni, Toscana plastic free è rivolta a stabilimenti balneari, manifestazioni e aree protette. Inoltre, mentre la prima include nelle limitazioni anche le bioplastiche, la seconda fa delle bioplastica (nelle sue molteplici composizioni) il materiale di transizione.
Proprio qui è il nocciolo della questione: bioplastica Si o bioplastica No? Ciò che è certo è che la Direttiva 2019/904 riprende la definizione di plastica dell’articolo 3, punto 5, del regolamento (CE) n. 1907/2006 includendo qualsiasi plastica a base organica e biodegradabile, a prescindere dal fatto che sia derivata da biomassa o destinata a biodegradarsi nel tempo. A livello nazionale però, il comma 802 della Legge di Bilancio 2019 chiede alle imprese del settore di aumentare la produzione di bioplastiche entro il 31 dicembre 2023.
E ancora, riciclato Si o riciclato No? Infatti, se da una parte c’è la lotta alla bioplastica, dall’altra c’è la guerra alla plastica riciclata. Plastiche miste da riciclo sono da tempo usate per arredi e ultimamente per la costruzione di strade. Inoltre, grazie alle autorizzazioni dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA), sempre più PET riciclato trova applicazione nel food. Anzi, secondo la Direttiva UE diventa obbligatorio introdurne un 30% nelle bottiglie a partire dal 2021. Quindi affianco alla bioplastica, il PET è l’altro materiale protagonista del momento. Di fronte a una richiesta sempre maggiore di riciclato e in particolare di PET riciclato, decade così il monopolio di Corepla per dare il benvenuto ai consorzi autonomi. Tra questi spicca Coripet, costituito da 25 aziende che rappresentano il 27% del mercato nazionale della acque minerali e il 75% del mercato della plastica riciclata. Un mercato competitivo non fa che aumentare le possibilità di raggiungere gli ambiziosi target di riciclo (55% al 2025 e 60% al 2030 per imballaggi in plastica), imposti dalla Direttiva (EU) 852/2018 e creare una sorta di differenziazione tra i vari materiali plastici che hanno caratteristiche, applicazioni e mercati completamente diversi.
Questo è estremamente necessario in Italia dove, dei 3,4 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica prodotti nel 2016, solo il 29% è stato avviato a riciclo. È ovvio che alla situazione odierna, con una infrastruttura industriale insufficiente a trattare l’alta domanda, il riciclo non basta. Ne sono testimonianza i roghi e le esportazioni verso paesi caratterizzati da una normativa ambientale meno stringente. Ne segue che riciclo non può che essere congiunto alla prevenzione. Tuttavia, una legislazione non chiara, una mancanza di linee guida e soprattutto l’assenza di una visione a lungo termine, non facilitano le aziende a innovare e investire su ricerca e sviluppo. Questi molteplici aspetti vengono affrontati dal programma europeo eCircular coordinato dall’Università di Bologna.
Riprendere il concetto di prevenzione e renderlo operativo, quindi supportare le aziende in questa transizione, attraverso eco-design, modelli di business circolari e tecnologie smart sono i punti cardini della strategia industriale per i prossimi anni. E questo è ciò che l’economia circolare chiede: cooperazione e sistematicità. Quindi, nella speranza di risolvere conflitti e confusioni, ognuno deve ripensare il proprio ruolo nella catena del valore e definire un piano che possa permettere di raggiungere l’obiettivo di avere 100% imballaggi plastici riutilizzabili o riciclabili al 2030 in maniera condivisa con tutti gli attori della filiera.