Oggi sappiamo che la crescita continua delle città e il fortissimo processo di inurbamento in atto - soprattutto in paesi come l’India, la Cina, il Brasile, la Nigeria - porta con sé una serie di elementi che non possiamo non considerare. Il primo è relativo alla povertà, anche in termini di povertà estrema: se immaginassimo di riunire tutto ciò che è città in un’unica parte del pianeta, vedremmo che il 30% della popolazione di questa Pangea Urbana vive di fatto in condizioni di povertà assoluta. 

Questo, legato ai prevedibili esodi dovuti a ragione climatiche per via della desertificazione di intere regioni africane, ci porta a confrontarci con fenomeni di rilevanti dimensioni. La questione delle migrazioni per ragioni ambientali – si stimano entro il 2050 quasi 250 milioni di profughi ambientali - si fonda sull’effettiva capacità di resilienza della nostra specie e sulla sua possibilità concreta di costruire un futuro, a fronte di una probabile e (auguriamocelo) lenta estinzione.

Fenomeni la cui portata va ben oltre le attuali politiche protezionistiche delle singole nazioni e che difficilmente potranno essere controllati con le politiche protezionistiche e sovraniste che oggi sembrano totalmente fuori scala ed anacronistiche. 

Quello che ci dicono i numeri è però ancora più impressionante se consideriamo che proprio le città, in quanto principali responsabili della produzione di CO2 con oltre il 75% delle emissioni globali e del consumo di oltre il 70% delle risorse naturali, sono all’origine del cambiamento climatico e delle sue drammatiche conseguenze. Ma le città ne sono anche le prime vittime: basti pensare alle ripetute inondazioni che minacciano intere aree metropolitane costiere, da Shanghai alla Florida. Una partita in cui l’innalzamento del livello del mare dovuto allo scioglimento dei ghiacciai gioca un ruolo primario. 

Il vero tema dunque oggi è capire come l’urbanità, che di fatto si manifesta in forma fisica su una porzione molto piccola del pianeta (circa il 3% delle terre emerse), abbia un impatto potentissimo perché sprigiona quella che Peter Haff chiama tecnosfera, una rete complessa di relazioni e connessioni immateriali che avvolge praticamente ogni angolo della sfera terrestre.

Oggi le città, da cause e vittime, hanno la possibilità di diventare realmente protagoniste della lotta al cambiamento climatico: una sfida quanto mai urgente e necessaria. A questo proposito, temi cruciali riguardano l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile, la riduzione delle emissioni, il sistema del trasporto pubblico e della mobilità privata, ma anche l’alimentazione e una gestione controllata e responsabile delle risorse naturali.

E poi la questione della forestazione urbana: uno degli aspetti più significativi per affrontare la sfida ambientale. Le foreste del mondo coprono oggi il 30% della superficie terrestre ma si tratta di una percentuale in continuo calo per il costante disboscamento di centinaia di ettari ogni giorno, con conseguenti ricadute drammatiche sulla biodiversità delle specie viventi. 
Proprio questo 30% (in calo) è ciò che garantisce l’abitabilità del nostro pianeta, produce l’ossigeno che respiriamo e assorbe circa la metà dell’anidride carbonica prodotta da quel 3% di superficie terrestre occupato dalle città. Per questo, se da un lato è assolutamente fondamentale impegnarsi nella difesa del patrimonio forestale esistente, è altrettanto importante cercare di aumentare in modo drastico le superfici boschive, anche all’interno delle città stesse. 

In questa direzione si stanno già muovendo le politiche pubbliche di diverse città nel mondo, riunite in reti internazionali come C40 o 100 Resilient Cities che diventano vere e proprie piattaforme di condivisione di esperienze e best practices per affrontare in modo sinergico e coordinato la crisi ambientale che ci troviamo davanti. 

La forestazione urbana è una di queste strategie, a sua volta declinabile in una serie di applicazioni volte ad implementare la quantità e la qualità delle superfici verdi nei contesti urbani, in forma di parchi e giardini ma anche di tetti verdi, sul modello di quanto stanno facendo Parigi e le città del Nord Europa, e di facciate verdi. 

Nello specifico, una delle declinazioni che stiamo seguendo opera su una trasformazione del DNA delle città, sul denominatore comune nella costruzione urbana, attraverso la possibilità di immaginare edifici che ospitino il verde come presenza costitutiva dell’architettura stessa. 

Un primo esperimento di questo approccio è stato il Bosco Verticale di Milano che, con le sue oltre 21 mila piante e una superficie verde pari a 2 ettari, dà un effettivo e importante contributo al mantenimento della biodiversità delle specie animali e vegetali, nel cuore di Milano. 

Il bosco verticale di Milano


A partire dal primo prototipo, reso possibile grazie ad un significativo investimento in termini di ricerca, è possibile oggi riproporre la stessa tipologia con costi molto più contenuti. 

Un’altra modalità di intervento di forestazione urbana è il parco orbitale: un anello verde intorno alle città, che ne limita l’espansione centrifuga e ne contiene lo sviluppo edilizio e il consumo di suolo, assorbendo allo stesso tempo larga parte delle polveri sottili presenti nell’atmosfera. 

E poi gli orti urbani, i tetti giardino, i community gardens, i parchi lineari: tutto può realmente aiutare. E’ stato questo lo spirito del Primo Forum Mondiale sulla Forestazione Urbana promosso insieme alla FAO, tenutosi a Mantova lo scorso novembre: condivisione di idee, pratiche e strategie tra professionisti di diversi ambiti e sfere disciplinari (ricercatori, botanici, etologi, urbanisti, politici, developers..) verso una riflessione comune sulle sfide che le città dovranno affrontare da qui ai prossimi 10-15 anni. 

Un’ultima considerazione riguarda un campo di azione differente. Se nelle città consolidate dobbiamo trovare un modo di integrare la natura vivente a partire da un tessuto già costruito, come possiamo intervenire in modo sostanziale nei paesi in cui le città non solo continuano a crescere, ma continuano ad essere costruite ex novo? In contesti di crescente urbanizzazione, che attualmente si allargano in quartieri- dormitorio potenzialmente infiniti, a scapito di efficienza energetica e coesione sociale, una soluzione è lavorare su nuovi insediamenti di dimensione contenuta (come una città media), che ospitino il verde come elemento integrante e costitutivo della città stessa. Queste Forest Citiesdi cui stiamo progettando applicazioni in Sud America, in Nord Africa e in estremo Oriente, lavorano sul tema dell’autosufficienza energetica e delle fonti rinnovabili, sulla circolarità e sulla sfida della desalinizzazione. 

A livello urbanistico, si tratta di città ad altissima tecnologia, ma con un tessuto a-gerarchico, democratiche nell’accessibilità e inclusive per tutti, città flessibili e policentriche che coniughino la sfida ambientale con la questione sociale, per rispondere alla domanda delle nuove generazioni di cittadini.  Una nuova generazione che ci sta lanciando un grido d’allarme e allo stesso un grande segno di speranza e che ci chiede di intervenire con urgenza verso quella che può essere una sfida vincente o una tragica sconfitta.  

 Estratto dall’intervento di Stefano Boeri in occasione del convegno Re-inventing Cities
 (Spazio Hera, Bologna, 06.06.19)