Se si chiede a un economista quale sia il miglior modo per combattere i cambiamenti climatici quasi certamente risponderà: introducendo una tassa sulle emissioni di anidride carbonica (la cosiddetta “carbon tax”). E se gli si chiede il perché, risponderà: perché questo è il modo più efficiente per ridurre le emissioni in quanto non si sceglie né chi né come ridurle, ma tutti gli “inquinatori”, dovendo pagare una imposta, ridurranno le loro emissioni fino a quando il costo per abbattere l’emissione dell’ultima tonnellata di CO2 uguaglia il valore della tassa unitaria da pagare. In questo modo si comincia col ridurre le emissioni dove costa di meno e man mano che l’imposta sale si riduce dove costa di più. Naturalmente, siccome ridurre le emissioni costa, i prodotti e i servizi a maggiore emissione aumenteranno di prezzo e questo indurrà i consumatori a consumarne di meno. Le conseguenze della carbon tax si espanderanno perciò in tutta l’economia guidando il sistema economico in modo virtuoso verso la decarbonizzazione.
Una seconda ragione per cui agli economisti piace la carbon tax è la maggiore probabilità di arrivare a un consenso generalizzato a livello politico mondiale. E’ ben noto che le emissioni non hanno cittadinanza: una volta che la CO2 è emessa, la sua concentrazione in atmosfera sale e non conta chi l’abbia emessa. Bisogna quindi che tutti si impegnino a ridurre le emissioni oppure gli sforzi di alcuni saranno resi vani dall’aumento delle emissioni di altri. Si era cercato di affrontare il problema in modo diverso con il Protocollo di Kyoto del 1997 dicendo: prima i Paesi industrializzati si impegnano a ridurre le loro emissioni di una certa quantità, poi seguiranno anche tutti gli altri. Ma questa strada implica negoziare per definire la quantità di riduzione delle emissioni di ciascun Paese e ognuno è tentato di cercare di limitare il proprio sforzo. Senza contare che nel tempo le condizioni cambiano. La Cina, ad esempio, nel 1997 emetteva un terzo delle emissioni di oggi e non aveva certo il grado di sviluppo economico attuale. Anche la soluzione escogitata per raggiungere l’Accordo di Parigi del 2015 è criticabile: ciascuno ha scelto spontaneamente il livello del proprio impegno, con l’unico vincolo di accettare di non ridurre il proprio impegno in futuro. Ma il risultato è che, benché tutti dicano che l’Accordo di Parigi preveda che non si lasci aumentare la temperatura di più di due gradi, ciò che è stato offerto dai Paesi non è sufficiente a raggiungere tale traguardo, anche se gli impegni fossero tutti rispettati. Certo gli impegni futuri potrebbero diventare più severi, ma intanto la concentrazione di CO2 in atmosfera sale e, secondo i modelli dell’IPCC, già oggi appare molto poco probabile che si stia sotto un incremento di temperatura di due gradi. L’unica possibilità sarebbe l’adozione su larga scala di tecnologie di assorbimento e cattura della CO2 di cui non si vedono i segni. Se si adottasse, invece, una carbon tax universale, dicono invece i suoi sostenitori, si potrebbe puntare su risultati più ambiziosi accettati da tutti i paesi in quanto il gettito della carbon tax sarebbe comunque a disposizione dei governi. Se poi alcuni paesi non aderissero a questa soluzione, verrebbero introdotti dei dazi compensativi sulle merci importate dai paesi refrattari per compensare l’ingiusto vantaggio competitivo goduto dai “paesi inquinatori”.
In effetti gli economisti amano la carbon tax anche per una terza ragione: essa dà un “doppio dividendo”. Oltre a ridurre le emissioni, si ottiene anche un gettito fiscale a disposizione dei governi (che ne hanno sempre bisogno). A parere di molti ambientalisti (ma anche di quanto disposto dalla stessa Unione Europea) tale gettito potrebbe essere utilizzato per incentivare soluzioni a bassa o nulla emissione di CO2 (per es. le energie rinnovabili). Più correttamente tale gettito potrebbe essere utilizzato per sostituire imposte “distorsive” (per es. ridurre le tasse sul lavoro), lasciando inalterata la pressione fiscale complessiva.
Ma se la “carbon tax” ha tutte queste virtù e dovrebbe essere adottata dai governi più facilmente di altre misure per combattere i cambiamenti climatici (come quasi tutti ufficialmente dicono di voler fare), perché così pochi paesi l’hanno introdotta? Come sempre, quando si passa dalla teoria alla pratica, la risposta si fa molto complessa. Qui ci limiteremo a considerare tre tipi di problemi.
In primo luogo, non basta dire “carbon tax”. Bisogna stabilire da quale livello di carbon tax si vuole partire e la sua evoluzione. Ammesso che l’obiettivo internazionale condiviso sia di non superare l’incremento di due gradi della temperatura, qual è il percorso ideale che occorrerebbe seguire? Su questo punto non si hanno informazioni certe e condivise. In particolare si deve tenere conto che la carbon tax non dà grandi risultati immediati, ma induce trasformazioni che richiedono molto tempo per diventare operative.
In secondo luogo bisogna fare i conti con l’accettabilità sociale. La parola tassa ha sempre un connotato negativo e tende ad essere rifiutata dai cittadini-contribuenti. Anche se una larga parte dell’opinione pubblica è a favore di un impegno contro i cambiamenti climatici, infatti, quando si annuncia che per decarbonizzare bisogna pagare di più alcuni prodotti non è detto che il consenso teorico si traduca in consenso pratico. E non pare servire neppure l’annuncio della neutralità fiscale, cioè che i proventi saranno usati per ridurre altre imposte. L’esempio più recente e più eclatante è la rivolta dei “gilets jaunes” in Francia. La carbon tax è stata introdotta in Francia nel 2014 partendo da 7 euro per tonnellata di CO2 (€/t CO2) e doveva salire progressivamente (con valori da confermare annualmente nella legge di bilancio) fino ad arrivare a 100 €/tCO2 nel 2030 (valore peraltro considerato dal Ministro-ambientalista Nicolas Hulot “insufficiente per mettere il mondo sulla traiettoria dei 2°C”). Quando a ottobre 2018 il Governo francese nella legge di bilancio ha annunciato di voler accelerare l’aumento della carbon tax di circa 15 €/t CO2 (corrispondenti a un aumento del prezzo della benzina di circa 3,5 centesimi al litro) è scoppiata la protesta che, seppure motivata anche da altre ragioni, ha obbligato il Governo a rinunciare a questa misura.
Il terzo ostacolo è la difficoltà dei governi a fare la prima mossa per le conseguenze che ciò ha sul commercio internazionale. La carbon tax fa aumentare i costi e quindi i prezzi (è nel suo DNA). Chi la introduce rischia perciò di rendere meno competitive le proprie imprese sui mercati internazionali, anche se l’impatto sarebbe significativo solo per alcuni settori. L’ideale, come s’è detto, sarebbe perciò che tutti –o almeno un gruppo consistente di paesi- introducessero la carbon tax con un’aliquota identica o il più possibile simile. Proprio per questo sono già stati fatti in Europa numerosi tentativi per introdurla, ma finora sempre con esito negativo. Il primo tentativo fu fatto nel 1992 quando la Commissione propose una direttiva per introdurre una “carbon-energy tax”, cioè tassa sulle emissioni di CO2 e sul contenuto di energia dei prodotti energetici. La proposta fu bocciata soprattutto per l’opposizione del Regno Unito contrario a che l’UE intervenisse sulla fiscalità che andava lasciata ai singoli paesi. Una ripresa di questo tentativo vi fu nel 1995 quando la Commissione propose di introdurre una CO2/energy tax per un periodo transitorio (fino al 1° gennaio 2000) prima di passare alla sua applicazione in modo omogeneo. Va sottolineato che nei documenti di quel periodo si trova una chiara consapevolezza che la carbon tax serviva anche a stimolare gli investimenti nel risparmio energetico e nelle fonti rinnovabili. Anche questo tentativo fallì e la direttiva del 2003 è riuscita solo a fissare i livelli minimi delle accise sui prodotti energetici. L’ultimo tentativo è stato compiuto dalla Commissione Barroso nel 2011 quando è stata ripresa la proposta di introdurre una carbon/energy tax con valori minimi obbligatori per tutti i paesi dell’UE (20 €/t CO2 e 9,6 €/GJ). Anche la proposta della Commissione Barroso non ha però avuto successo per l’impossibilità di trovare l’unanimità dei consensi richiesta in materia fiscale. Prendendo atto di ciò, una delle prime decisioni della Commissione Junker nel 2014 è stato l’abbandono di questa proposta.
Dopo le recenti elezioni europee, anche alla luce dei buoni risultati ottenuti dai partiti ecologisti, è stato ipotizzato che la proposta potrebbe essere ripresa dalla nuova Commissione, magari abbinandola anche all’abolizione del principio che in materia fiscale vi deve essere l’unanimità dei Paesi membri. Sarà la volta buona? Al momento è impossibile dirlo senza conoscere gli accordi per la formazione della nuova Commissione e per la costituzione di una maggioranza al Parlamento europeo. Si può però fare un’osservazione sulla coerenza della politica europea nella lotta ai cambiamenti climatici. Ormai da molti anni l’UE ha introdotto altri tre strumenti per combattere le emissioni: l’Emission Trading System (ETS, che ha affidato al mercato il compito di fissare un prezzo per le emissioni di carbonio raggiungendo a maggio 2019 un valor medio di 25,5 €/t CO2), l’obbligo di sviluppare le rinnovabili e quello di promuovere il risparmio energetico. Secondo la teoria, tre strumenti per un solo obiettivo sono troppi se si vuole procedere in modo ordinato ed efficiente verso il traguardo condiviso. Se perciò l’UE non ripensa a tutte le sue politiche di intervento nella lotta ai cambiamenti climatici (cosa che sembra al momento impossibile), l’aggiunta di una carbon tax non sembra poter portare l’ordine e i benefici attesi dagli economisti con la possibile eccezione del settore trasporti.