Gli allarmi si susseguono, anche se molti li ignorano e altri non li condividono. Ma il climate change è una realtà che tocca tutti in tutto il mondo, sebbene in modo differenziato. Recentemente gli scienziati dell’IPCC (International Panel on Climate Change), che da decenni ci avvertono del pericolo dei gas serra e del riscaldamento globale, sono stati ancora più drastici: abbiamo, come pianeta, non più di 12 anni per tagliare le emissioni e fermare l’innalzamento della temperatura media del globo, dopo di che l’effetto sarà irreversibile e il pianeta Terra andrà incontro a catastrofi ingestibili come lo scioglimento delle calotte polari e dei ghiacciai, la desertificazione, l’innalzamento dei mari e altri effetti poco piacevoli.

Il leader della più potente nazione del mondo, il presidente americano Trump, fa spallucce e inverte le politiche ambientali dei suoi predecessori. Chi si ricorda più della crociata di Al Gore sulla “inconvenient truth”? Per la verità molti, ma con scarso effetto. Uno degli economisti più importanti del mondo, Jeffrey Sachs, nei giorni scorsi ha denunciato la politica di Trump bollandola come “crimine contro l’umanità”. Insomma, assieme al pianeta anche gli animi si scaldano.

Occorre certamente accelerare la corsa ai ripari, poiché il cammino che porta a uno sviluppo sostenibile e a una crescita economica continua è oscuro e confuso. Al tema è dedicata l’ultima edizione di Progetto Macrotrends di Harvard Business Review Italia dal significativo titolo “Dallo sviluppo senza limiti ai nuovi limiti allo sviluppo”. Tra gli autori, lo stesso Jeffrey Sachs, in compagnia di Enrico Giovannini (AsVis), Stefano Venier (Gruppo Hera), Mark Esposito (Harvard), Francesco Starace (Enel), Marco Alverà (Snam) e altri. Il filo rosso che lega tutti i saggi è che dubbi e incertezze devono ormai lasciare il passo a politiche di contrasto fatte di riduzioni massicce di emissioni di gas serra, di passaggio da fonti fossili più inquinanti ad altre meno inquinanti (da petrolio e carbone a gas), di passaggio da fonti fossili in generale a energie rinnovabili, di progressivo incremento dell’utilizzo di energia elettrica, di risparmio di risorse naturali, di innovazione tecnologica in tutti i campi per aumentare l’efficienza e ridurre gli sprechi.

Infatti, scrive Esposito, l’economia globale sta già consumando una volta e mezzo le risorse naturali che il pianeta è in grado di produrre e per ogni punto di crescita del PIL globale, le emissioni di CO2 e il consumo di risorse crescono, rispettivamente, di un ulteriore 0,5 e 0,4%. Se le cose rimangono così, si ritiene che le attuali pratiche di produzione finiranno per non generare più PIL, ma, al contrario per produrre perdite che si calcola ammonteranno a 4.500 miliardi di dollari entro il 2030.

In mancanza delle misure drastiche evocate dall’IPCC e in buona parte già recepite dagli SDG (Sustainable Development Goals) dell’ONU, la situazione si aggraverà rapidamente, tanto più che lo sviluppo sociale non si arresta: la stessa ONU prevede una crescita della popolazione del 48% entro il 2100, in un contesto di scarsità di risorse, mentre le diseguaglianze tenderanno a replicarsi.

Occorre dunque investire massicciamente a livello Paese e a livello di singole imprese, ma anche gli individui sono chiamati a fare la loro parte. A livello globale, infatti, la somma dei comportamenti ha effetti globali: basti pensare all’invasione delle plastiche nei mari, un problema non solo estetico dal momento che le microplastiche sono ormai entrate nella catena alimentare.

Per contrastare il climate change, tutti i settori economici devono compiere uno sforzo di innovazione senza precedenti, e qui la buona notizia è che la cosiddetta quarta rivoluzione industriale, ossia il digitale, può dare un grande contributo. Settori di forte impatto ambientale come la produzione e la distribuzione di energia, lo stesso consumo energetico, il riscaldamento nelle abitazioni e nei luoghi di lavoro (e il condizionamento), i trasporti nelle città e all’interno dei Paesi così come su scala internazionale, l’agricoltura e, naturalmente, la manifattura, possono tutti trarre enorme giovamento dai processi di digitalizzazione in corso. Un importante contributo potrà venire anche da settori meno direttamente coinvolti ma generalmente pervasivi, come finanza e assicurazioni, chiamati a selezionare le operazioni da finanziare e/o assicurare sulla base della loro sostenibilità oggi e in futuro.

E l’Italia? Situazione poco brillante. Scrive, infatti, Enrico Giovannini che il nostro Paese evidenzia un ritardo sulla strada del perseguimento degli SDG ed è addirittura peggiorata in molte aree con solo lievi miglioramenti in altre. L’Europa ha fatto un po’ meglio, ma non molto. Nell’insieme, il climate change non sembra avere ancora assunto la priorità che merita. Non proprio l’approccio più saggio per un allarme che riguarda ormai tutto il pianeta.