I primi dati sull’annata energetica 2017 dipingono un quadro molto diverso da quel che era auspicabile accadesse dopo-Parigi. In sintesi: i consumi energetici hanno segnato un sensibile aumento del 2,1%, coperto per circa i tre quarti dalle fonti fossili e per un quarto scarso dalle rinnovabili; la domanda elettrica è sì cresciuta del 3,1%, quindi più di quella energetica, ma nei paesi avanzati l’aumento è stato molto più basso di quel che ci si aspettava (+1%); i miglioramenti dell’efficienza energetica hanno segnato una forte contrazione (1,7% vs. 2,3% nel precedente triennio). Amara conclusione: le emissioni di anidride carbonica, dopo un triennio di stabilizzazione, hanno ripreso a crescere, dell’1,4% a livello mondiale, segnando un nuovo massimo storico di 32,5 miliardi di tonnellate.

Unica grande area che ha registrato una riduzione delle emissioni è stata l’America, grazie al proseguire del processo “dash for gas”, all’opposto dell’Europa che le ha aumentate dell’1,8% (Italia: +3,2%) rendendo goffe le sue grida contro l’Amministrazione Trump. Piuttosto che attaccarla, meglio avrebbe fatto a riflettere sulle ragioni dei suoi scarsi progressi. Come attesta l’European Environment Agency quando scrive “A key step towards making Europe resilient to the impact of climate change involves the adoption of effective national adaptation strategies […..]. However, progress of these policies [….] is limited. It is, therefore, uncertain whether Europe is making decisive progress in adapting to the impact of climate change”.

Sorprendono le assenti reazioni a questo deludente scenario da chi ha fatto della lotta ai cambiamenti climatici il centro del proprio interesse se non una missione. Silenzio assoluto. Anziché denunciare il fatto che nessuna seria decisione è stata adottata dagli Stati, si preferisce continuare a magnificare gli innumerevoli scenari che – incuranti di quanto avviene – prospettano la possibilità di conseguire inerzialmente l’obiettivo di Parigi di contenere il riscaldamento del Pianeta entro (almeno) i 2°C. Dubito fortemente che a politiche invariate questo possa accadere. La verità è che per la lotta ai cambiamenti climatici è iniziata la fase più difficile, quella delle policy per combatterla, che non possono ridursi a una mera variazione dell’aritmetica energetica: meno fossili più rinnovabili.

La prima fase può farsi risalire al 1979 con la pubblicazione da parte della National Academy of Sciences americana del primo studio sui cambiamenti climatici che asseriva che un raddoppio in atmosfera della CO₂ rispetto all’età pre-industriale, causato dalle attività umane e non da fattori naturali, avrebbe causato un aumento della temperatura di 3°C (con un probabile errore di ± 1,5° C”: quindi +1,5°/+4,5°C).. Conclusione che sarà fatta propria e ufficializzata una decina di anni dopo, nel 1988, dall’organismo scientifico da poco istituito dalle Nazioni Unite: l’IPCC.

La seconda fase, dai primi anni Novanta, ha visto il faticoso dipanarsi dello sforzo internazionale per pervenire a un’intesa tra gli Stati sulla lotta ai rischi climatici, culminata con l’Accordo di Parigi del 2015.

La terza fase, quella attuale, è incentrata sulle policy con cui farlo, perché quelle sinora attuate sono niente rispetto a quelle necessarie. Scelte che comportano oggi costi elevati e certi a fronte di futuri incerti benefici. Parigi non è un pasto gratis e comporta oneri addizionali per le economie; richiede l’impiego di enormi risorse finanziarie da sottrarre ad altre destinazioni, mentre non è chiaro da dove possano provenire. Non è un caso che in nessuna campagna elettorale, americana, francese, tedesca, italiana la questione climatica non sia stata nemmeno sfiorata. Perché i governi sanno bene che le politiche climatiche sono elettoralmente costose - si pensi ad esempio all’introduzione di un carbon price – e di certo non favoriscono le priorità delle loro agende: la ripresa delle economie, le tensioni internazionali, i rischi di un nuovo protezionismo, etc.

Pur se il treno da Parigi sembra aver deragliato, ragioni di ottimismo, o almeno di non nero pessimismo, potrebbero comunque esserci e provenire proprio da quella scienza che ha paventato gli scenari climatici più drammatici, a partire da quelli incardinati nei rapporti dell’IPCC. Le cose in sostanza potrebbero essere migliori di quanto sostenuto dal catastrofismo imperante. Un’eventualità che emerge in una recente ricerca apparsa su “Nature Geoscience” da parte di un’equipe di ricercatori che sostiene che le dinamiche climatiche siano migliori di quanto i modelli probabilistici abbiano sinora previsto, al punto da ritenere che l’obiettivo da sempre considerato illusorio di contenimento dell’aumento del riscaldamento ad 1,5°C potrebbe conseguirsi, stanti gli attuali livelli emissivi. Domanda: e se l’IPCC avesse sbagliato, come molti studiosi (non negazionisti) hanno sempre sostenuto inascoltati? E che dirà l’IPCC nel suo prossimo rapporto sullo stato del Pianeta? Vi sono in sostanza buone ragioni per sperare che ancora una volta i profeti di sventura abbiano la peggio.