Nonostante le emissioni totali di gas serra italiane si siano ridotte del 16,7% nel periodo 1990-2015, passando da 519,9 a 433,0 milioni di tonnellate di CO2eq, già nel 2015 – come spiega il Rapporto ambiente del Sistema Nazionale a rete per la protezione dell'ambiente (SNPA) – si stima una nuova risalita: +2,3%. Una performance negativa che riflette da un lato i primi effetti della pur magra ripresa economica, e dall’altro la mancata crescita delle energie rinnovabili.

Nell’ultima Analisi trimestrale del sistema energetico italiano, appena data alle stampe dall’Enea, si stima che nell’arco dell’intero 2017 le FER siano passate a coprire il 17,6% dei consumi finali di energia italiani, segnando un misero +0,2% sul 2016. «Negli ultimi tre anni la ripresa del sistema economico e la brusca frenata degli incentivi alle rinnovabili elettriche hanno impresso una discontinuità nella transizione energetica italiana, determinando un peggioramento nella dimensione della decarbonizzazione», sottolinea l’Enea, tanto che «le tendenze recenti non sembrano in linea con l’obiettivo» di più lungo periodo, che prevede una continuazione della crescita delle rinnovabili fino al 28% dei consumi finali entro il 2030.

Uno stallo che affonda le proprie radici nell’inadeguato supporto allo sviluppo del settore – che invece macina record a livello globale – fornito dalle istituzioni nazionali, ma dietro al quale si nasconde anche un fenomeno non sempre evidente: l’ingombrante presenza del fenomeno Nimby, ovvero la riluttanza dei territori (frequentemente assecondata dalla stampa) ad ospitare in situ lo sviluppo degli impianti industriali necessari per produrre energia grazie alle fonti rinnovabili.

Osservando una rassegna di oltre 1400 testate quotidiane e periodiche, l’ultimo rapporto diffuso dall’Osservatorio Nimby Forum – intitolato Nimby e post-verità – parla chiaro: sono 359 le opere e gli impianti contestati nel 2017 (un record), e il comparto energetico è il più rappresentativo (56,7%). Sorprende notare che le opere energetiche in assoluto più contestate (arrivando ad assommare il 75,4% dei casi) sono proprio quelle che dovrebbero intercettare il cambiamento verso un presente e un futuro più puliti, le fonti rinnovabili.

Distribuzione settoriale degli impianti censiti     Impianti per la produzione di energia elettrica

La sorpresa cresce ancora se si confrontano questi dati con quelli inerenti la percezione di apertura verso la green economy che auto-dichiarano i cittadini italiani. Sono sempre di più i sondaggi che testimoniano un’ampia fiducia, almeno apparente, verso le energie rinnovabili: se interrogato in proposito, circa il 90% del campione intervistato si dichiara infatti favorevole al loro sviluppo. Quanto basta per evidenziare una rilevante dissonanza cognitiva sul tema.

Ad alimentarla concorrono probabilmente numerosi fattori. Dalla crescente sfiducia verso le istituzioni che devono controllare la bontà del progetto – sempre più comune ad ogni livello – alla diffidenza verso il soggetto attuatore. Ma ad assumere una sempre più chiara rilevanza tra gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di un impianto FER è oggi il fenomeno delle fake news, incardinato attorno alle modalità stesse con cui oggi il grande pubblico fruisce l’informazione.

L’esempio più chiaro è quello fornito dai social network, come Facebook. Come spiega il ricercatore della Ca’ Foscari Walter Quattrociocchi, uno dei più accreditati studiosi del fenomeno, le «informazioni non sono processate in quanto vere, ma in quanto conformi ad una personale visione del mondo, a narrazioni. L’enorme vastità di fonti, versioni e contenuti su internet massimizza questo processo. Gli utenti su Facebook tendono a formare gruppi attorno a narrative condivise e insieme la fanno evolvere aggiungendo altri tasselli al puzzle. Altre informazioni alla cui veridicità non sono assolutamente interessati. L’importante è che piaccia e che sia ancillare alla causa condivisa. Ad esempio nel caso del dibattito sulle fake news si continua a credere che il fact-checking sia risolutivo. Da tempo si sa che non lo è».

Dunque come possiamo aggredire il problema? Una risposta definitiva non esiste, ma sappiamo che è possibile agire su due fronti. Il primo, interrompendo quei meccanismi di funzionamento della rete che sottostanno alla crescente diffusione di bufale. Al proposito la giornalista Milena Gabanelli, commentando i risultati raccolti dal Nimby Forum osserva che «tu digiti una parola chiave e il motore di ricerca ti indicherà come primo il link più cliccato. È così che si diffondono le fake news. Un fenomeno che si potrebbe contrastare benissimo, se Google (che ha il 96% del mercato come search) e Facebook (primo operatore social) introducessero un algoritmo di verifica della notizia, prima di fargli scalare la classifica. Purtroppo anche loro sono solo interessati al traffico, e non alla qualità». Si porrebbe dunque in questo caso il tema di come disegnare gli incentivi, economici e/o normativi, per raggiungere l’obiettivo.

Ma è più importante ancora agire su un secondo fronte, cercando di aggirare il muro di gomma – dato che non si può infrangere, è così che il nostro cervello lavora – delle casse di risonanza che si sviluppano in rete recuperando la fiducia nella scienza, tramite un approccio più inclusivo verso la cittadinanza. «Credo che per recuperare la fiducia nella scienza e nell’expertise – argomenta al proposito l’esperta di processi partecipativi Chiara Pignaris – non resti che intensificare gli scambi tra cittadini ed esperti e avvicinare i linguaggi, con umiltà e molta pazienza». Un lavoro che naturalmente, per quanto riguarda le energie rinnovabili, chiama in causa in primis i comunicatori ambientali di professione.

È qui infatti che si sviluppa il ruolo del giornalista ambientale, che oggi più che mai è chiamato a sviluppare le competenze necessario per saper descrive una realtà complessa come è quella delle energie rinnovabili, apparentemente accessibile a tutti ma non sempre comprensibile. «Vanno attivati dei percorsi di formazione dei giornalisti che spesso – conclude al proposito Quattrociocchi – non hanno le competenze necessarie per rendere fruibile in maniera più o meno corretta ciò che vorrebbero. Non sarà mai possibile emanciparsi totalmente dal confirmation bias, ma tornare a comunicare e ad avere un senso di comunità ne allevierebbe le distorsioni e potrebbe renderlo anche proficuo».