Alla prova della storia, l’atteso grande sviluppo industriale del nucleare civile – che il Presidente americano Dwight D. Eisenhower aveva prospettato nel famoso discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite “Atoms for Peace” l’8 dicembre 1953 – non si è mai avverato: rimanendo un fenomeno circoscritto in termini quantitativi, temporali, spaziali, anche se in nove delle dieci maggiori potenze mondiali la tecnologia nucleare diveniva componente più o meno essenziale del mix energetico.

Dall’inizio del Millennio il suo contributo alla copertura dei consumi energetici primari è rimasto, tuttavia, sostanzialmente costante in termini assoluti riducendosi però di circa un terzo in termini relativi: dal 6,2% al 4,4% del 2016. Tra le molte ragioni, due le principali. In primo luogo, lo scetticismo, se non ostilità politico-sociale, che in molti paesi – solo una trentina al mondo possono dirsi nuclearizzati – è andata alimentandosi contro la tecnologia nucleare facendo venir meno lo spirito e clima di fiducia che ne aveva sostenuto lo sviluppo. Sin lì percepito nelle democrazie liberali come fattore di modernizzazione, sostenuto soprattutto dalle forze cosiddette progressiste, il nucleare diveniva archetipo dei rischi provocabili dal potere della scienza sulla natura.

Negli Stati Uniti come in Europa, il delicato equilibrio tra gli sviluppi della scienza e delle tecnologie e la percezione che ne avevano le opinioni pubbliche tendeva a indebolirsi più si consolidavano i movimenti contro gli effetti nocivi sull’ambiente degli eccessi di un progresso tecnologico, si sosteneva, fuori da ogni controllo.

La seconda ragione alla base del declino del nucleare è tutta economica: la sua insostenibilità in un contesto di mercato elettrico concorrenziale quale quello che si è andato configurando in tutti i paesi avanzati (ma non in quelli emergenti, come la Cina) negli ultimi decenni. In assenza degli aiuti di Stato che ne sorressero lo sviluppo post-bellico e a fronte degli enormi costi e dei lunghi tempi, imprevedibili in entrambi i casi, per il nucleare non vi è letteralmente gara. Negli astratti scenari contabili della ‘transizione energetica’ post-fossili – che riflettono quel che è politicamente fattibile più che quel che sarebbe utile fare – il nucleare vi compare in modo decrescente.

La Commissione europea – restia a fornire indicazioni di politica energetica se non per rinnovabili e risparmio energetico – ne prevede un declino moderato, sempre che si realizzino gli ingentissimi investimenti necessari a rivampare le centrali esistenti, in assenza dei quali la quota del nucleare si azzererebbe. Come possa l’Agenzia di Parigi nei suoi scenari sostenere una non indifferente crescita del nucleare in Europa resta una prospettiva, allo stato delle cose, priva di ogni fondamento. Una profonda riconfigurazione delle tecnologie dei reattori, adattati alle esigenze di sicurezza emerse dopo l’incidente di Fukushima, richiederebbe poi un impegno finanziario fuori dalla portata degli Stati e di un’industria manifatturiera in profonda crisi.

Stando così le cose, nessun rilevante contributo all’abbattimento delle emissioni globali potrà quindi venire dal nucleare. La tecnologia verso cui un tempo si riversavano le maggiori speranze di progresso delle società è oggi percepita come ostacolo su tale via, nonostante sia una delle opzioni disponibili per combattere i cambiamenti climatici e contribuire alla salvezza del Pianeta. Rinunciarvi pregiudizialmente è erroneo allo stesso modo del credervi acriticamente.

L’evidenza è poco incoraggiante per l’insieme dei paesi occidentali che vivono una sostanziale paralisi degli ordinativi di nuove centrali, mentre uno sviluppo di non poco conto potrebbe esservi nei paesi asiatici (Cina e India) o medio-orientali tale da rimpiazzare le chiusure altrove programmate. Le prospettive in Europa sono, quindi, nel complesso negative, come attestato dalla Commissione di Bruxelles che prevede a metà secolo una riduzione del suo contributo alla domanda di energia elettrica dal 28% al 20% sempre che si realizzino investimenti per 340-440 miliardi euro. Possibilità, allo stato delle cose, alquanto remota.

La programmata chiusura da qui a un decennio di una potenza di 22.000 MW causerà, in conclusione, un inevitabile aumento delle emissioni, sempre che non vi sia un aumento di pari entità di quella da fonti rinnovabili. Un circolo vizioso da cui non è facile capire come l’Europa possa uscirne. Successivamente all’incidente di Fukushima si è avuta la decisione del Belgio di azzerare la produzione nucleare entro il 2025 (50% della generazione elettrica) e della Germania entro il 2022 (14%), mentre la stessa Francia ha deciso per legge di ridurne in un decennio il contributo dal 75% al 50% della generazione elettrica. Di segno contrario l’intenzione della Gran Bretagna di costruire nuove centrali, ad iniziare da quella di Hinkley Point C - assegnata a trattativa privata a un consorzio capeggiato da EdF, a dispetto di ogni regola di mercato - e di alcuni paesi del Nord ed Est Europa di mantenere e forse espandere la potenza disponibile per dimensioni comunque limitate (Svezia, Finlandia, Ungheria, Polonia, Slovacchia).

Morale: dall’essere la bandiera del futuro energetico europeo e uno dei pilastri della nascita della Comunità Economica Europea con l’Euratom, il nucleare è stato gradualmente e silenziosamente emarginato trascurando il fatto, come ha scritto Aviel Verbruggen nel 2008, che dei cambiamenti climatici “il nucleare è una parte della soluzione ma senza nucleare non vi è soluzione”.