L’inquinamento dell’aria nelle nostre città continua a fare vittime, e non poche, nonostante i miglioramenti registrati in molte aree del mondo, a cominciare dall’Europa. Numeri che portano a considerare questo fenomeno una vera e propria pandemia, come è stata chiamata nella ricerca della Fondazione per lo sviluppo sostenibile presentata da meno di un mese “La sfida della qualità dell’aria”. Nel mondo ogni anno milioni di persone muoiono a causa dell’inquinamento atmosferico e 9 persone su 10 vivono in luoghi con livelli di inquinamento più alti di quelli raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In Europa i tre inquinanti a maggiore criticità – particolato atmosferico, biossido di azoto e ozono – annualmente sono responsabili di oltre mezzo milione di decessi prematuri, più di 20 volte il numero delle vittime di incidenti stradali.
In Italia in questi giorni si è riaperto con forza il dibattito sull’inquinamento nelle nostre città ed è iniziata la “stagione dei superamenti dei limiti”, in particolare per il PM, e soprattutto delle misure impopolari di blocco del traffico nelle diverse varianti possibili (blocchi totali o parziali, targhe alterne, limiti variabili ai diversi livelli di standard Euro, etc.). L’Italia, secondo il recente rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente, nel 2014 ha pagato un conto molto salato, con 80 mila vittime, oltre 1.300 decessi prematuri ogni milione di abitante, un valore record tra le grandi economie europee destinato molto presumibilmente a crescere, visto che il 2015 è stato un annus horribilis per la qualità dell’aria.
Attraverso lo studio che la Fondazione ha voluto realizzare, in collaborazione con ENEA e in partnership con Ferrovie dello Stato, abbiamo cercato di capire perché i livelli di inquinamento in alcune città italiane, nonostante i miglioramenti dovuti alle tecnologie, alle nuove regolamentazioni, a un mix energetico migliore e a carburanti più verdi, restano sempre critici soprattutto in alcuni hot spot: non solo il bacino padano – da Torino a Venezia – ma anche l’area metropolitana di Roma, quella di Napoli, l’area del frusinate e altre ancora. Le cause dell’inquinamento dell’aria sono molteplici e complesse e l’analisi dei dati inventariali non è di per sé sufficiente a identificare le politiche e misure più efficaci. Gli studi di caratterizzazione del particolato atmosferico possono essere, ad esempio, di grande utilità per comprendere meglio “il DNA” dell’inquinamento atmosferico, anche se sono ancora troppo poco diffuse. Serve ancora ricerca e conoscenza, in particolare sugli effetti sanitari dell’inquinamento atmosferico, ma quello che sappiamo ci deve bastare per mettere in campo politiche più efficienti di quelle attuali, promuovendo interventi più ampi e strutturati. Certamente sul traffico, che rimane il principale responsabile della scarsa qualità dell’aria nelle nostre città, ma non solo: anche l’agricoltura e il riscaldamento domestico, in particolare con le biomasse, sono sorgenti importanti che vanno monitorate e regolate.
Al termine dello studio, la Fondazione propone un “decalogo” di interventi, sia di carattere generale (dalla necessità di una governance nazionale a quella di intervenire in modo preventivo sulle emergenze) sia settoriale, ovviamente sui trasporti ma anche su altri settori, incluso quello residenziale che da solo è responsabile di quasi i due terzi delle emissioni nazionali di PM2,5 e del sostanziale disallineamento dell’Italia rispetto ai target di riduzione fissati dall’Europa al 2030 (direttiva NEC – National Emission Ceilings). Una delle proposte riguarda, ovviamente, la necessità di promuovere interventi innovativi di efficientamento energetico degli edifici secondo un approccio di riqualificazione profonda (deep renovation), in grado di coinvolgere interi edifici o quartieri con tagli dei consumi di oltre il 50%: il dato da cui si parte è la constatazione che, nonostante le misure messe in campo fino a oggi, i consumi di energia per m2 delle nostre abitazioni sono praticamente gli stessi da almeno quindici anni.
Ma questo aspetto da solo non basta visto che ormai è appurato che le emissioni di particolato atmosferico del settore residenziale derivano quasi integralmente dal consumo di biomasse e le centraline di monitoraggio confermano l’importanza di questo fenomeno. Nella città di Milano ad esempio. la combustione di biomasse è responsabile di un quinto delle concentrazioni rilevate di PM10 (Fonte: Progetto Airuse).
Naturalmente dobbiamo lavorare per migliorare la qualità e l’affidabilità delle informazioni disponibili (a cominciare da quelle sui consumi di biomassa e sugli andamenti delle emissioni), ma da subito dobbiamo varare delle Linee guida nazionali sull’utilizzo delle biomasse per il riscaldamento, che seguano tre direttrici fondamentali: scoraggiare l’utilizzo delle biomasse per riscaldamento in aree urbane critiche o densamente abitate; favorire l’utilizzo di tecnologie efficienti in sostituzione di impianti tradizionali a bassa efficienza; promuovere il teleriscaldamento, introdurre nuovi criteri ambientali nella filiera di approvvigionamento e garantire controlli sugli impianti.