“America first” significa anche lasciar la mano libera ai produttori americani di materie prime. Per quanto riguarda gli idrocarburi, è però difficile immaginare che la cresciuta produzione petrolifera statunitense giunga a dar corso a significative esportazioni via mare di crude oil, anche se il fracking ha in pratica già consentito allo zio Sam di rinvenire un Kuwait in casa.
Solo se il prezzo del barile ritorna a livelli elevati e, in aggiunta, la tecnologia mirante a convertire il gas naturale in benzina fa passi da gigante (due eventualità – specie la seconda – che non stanno dietro l’angolo), può accadere che gli Stati Uniti affrontino i tanto indispensabili, quanto massicci investimenti occorrenti per adeguare i porti, le tubature, i serbatoi, ecc. dello zio Sam alle esigenze collegate all’avvio di forti caricazioni d’oro nero. In più, a complicare le chance di vendita all’estero del greggio statunitense, provvede l’enorme difficoltà in cui incappa chi vuole far giungere il tight oil estratto nel versante orientale del Nord America ai paesi affacciati sul Pacifico.
E’ vero che le nuove chiuse del Canale di Panama permettono il transito delle petroliere dette Suezmax (ovvero le cisterne che a pieno carico trasportano circa un milione di barili), ma è anche vero sia che queste navi non sono le petroliere di maggior taglia, sia che le Suezmax possono attraversare l’America Centrale solo con pescaggio ridotto, ovvero se imbarcano qualche centinaio di migliaia di barili in meno. Una limitazione che lega in modo eccessivo l’export del tight oil del Texas, dell’Oklahoma, ecc. nell’area del Pacifico alla distanza coinvolta, al pedaggio ed al fondale disponibile allo sbarco. Così da qualche tempo le esportazioni statunitensi di greggio superano il milione di barili al giorno, ma circa la metà del quantitativo è rappresentato dalle spedizioni via condotta in Canada. In più, l’aumento delle vendite all’estero dipende da fattori come il prezzo scontato di cui beneficiano alcune controparti internazionali, gli sviluppi introdotti nelle infrastrutture, l’andamento della produzione e il tasso d’utilizzo delle raffinerie. Nel complesso, i maggiori volumi di greggio coinvolgono nell’export marittimo petroliere della taglia Suezmax, Aframax (ovvero le cisterne che a pieno carico trasportano circa 600 mila barili) e Panamax. (ovvero tonnellaggio d’ancor minor stazza) e le destinazioni sono molto diversificate. Si va da paesi asiatici come la Cina e Singapore, la cui importazione supera i 100 mila barili al giorno ad aree come la Malesia e l’India che quotidianamente importano grosso modo la metà. Tra le varie petroliere da greggio partite da Corpus Christi in Texas per l’export di crude oil ve ne stono state parecchie destinata all’America Latina (Curacao, Colombia e Guatemala) e talune hanno anche raggiunto mercati come quello europeo.
Ben diverso, invece, è l’avvenire dei trasporti via mare del gas naturale estratto negli Stati Uniti, anche se fino a pochi mesi fa l’export del metano a stelle e strisce era esclusivamente rappresentato dalle spedizioni via condotta destinate al Messico. Un fatto può contribuire a mutare il quadro: a febbraio 2016 a Sabine Pass, in Louisiana, é entrato in servizio il primo centro di liquefazione ed imbarco statunitense. Ad oggi, sono già stati spediti oltre 140 carichi. Essi sono stati consegnati in 24 paesi. La maggior parte delle spedizioni sono giunte in America Latina (44%). A queste destinazioni seguono l’Asia (28%), il Medio Oriente e l’Egitto (15%) e, infine, l’Europa (13%). In più, il ventaglio dei potenziali acquirenti degli idrocarburi gassosi ottenuti dalle rocce scistose nordamericane è destinato a dilatarsi, giacché almeno tre elementi mettono fin d’ora gli Stati Uniti in grado di vendere all’estero il loro metano, propano, ecc. in misura maggiore del gas naturale che essi ricevono da oltreconfine.
Ecco la triade di fattori positivi. Innanzitutto, il citato terminal in Louisiana sta raddoppiando la propria capacità d’esportazione. Secondariamente, un’attrezzatura gemella di quella di Sabine Pass è in corso d’approntamento a Cove Point, sull’Atlantico settentrionale. Già quest’insieme d’investimenti in attrezzature portuali ed in impianti di liquefazione creerà una capacità d’esportazione grossomodo equivalente all’odierno consumo di New York. Non molto, ma neppure una goccia versata in mare.
Infine, bisogna considerare il terzo elemento: il Canale di Panama dall’estate scorsa può accogliere il 90% degli scafi esistenti concepiti per il trasporto di gas naturale liquefatto. Si tratta di un’opportunità che consente economie notevoli sia di tempo, sia di denaro con riguardo alle spedizioni metanifere dal versante orientale degli Stati Uniti. E ciò tanto nel caso di spedizioni verso l’Asia, quanto nell’eventualità che la destinazione sia posta sulla costa occidentale del Sud America. Infatti, (escluso il poco tonnellaggio d’altissima stazza costruito per i collegamenti da e per specifici terminal), le lunghe navigazioni di GNL sono usualmente eseguite con navi capaci d’imbarcare circa 160.000 mc. Ebbene, che accade ad una moderna unità di questa taglia che dopo aver lasciato Sabine Pass o Cove Point si porta in Pacifico transitando da Panama? Succede che può giungere in Cile impiegando molto meno tempo di quello necessario quando vigevano i precedenti limiti lungo il canale e che – per citare un esempio relativo alle destinazioni asiatiche - può, se si reca in Cina, ridurre la navigazione di circa tre settimane: e dare, di conseguenza, un taglio al costo del round trip nell’ordine dei 3,2 mil. di doll.
Tutto questo comporta miliardi di metri cubi di gas liquefatto viaggianti attraverso il Pacifico? No, perché affinché ciò avvenga bisogna ammettere che la Repubblica Popolare cinese - considerati sia i suoi sforzi indirizzati a limitare il più possibile la propria dipendenza energetica dall’estero, sia la competitività sul mercato cinese del gas d’origine asiatica e mediorientale importato, sia, infine, il quadro geopolitico - abbia convenienza a vincolarsi al metano statunitense, il che è un’eventualità ancora molto vaga.
Comunque, l’export futuro oltremare del metano statunitense in via di principio riguarda anche l’Atlantico. Le valutazioni di Washington quando alla Casa Bianca stava Obama erano che all’America conveniva piazzare il proprio gas anche nell’Europa centrale ed orientale. Il motivo? Semplice: i bisogni di metano di quest’area oggi li copre quasi esclusivamente la Russia ed i consumi a venire di tale spazio europeo dipenderanno in futuro ancor più da Mosca, se andranno a compimento le nuove megacondotte da essa auspicate. Come Nord Stream 2, un’opera d’alta ingegneria concepita tanto per aumentare le vendite russe in Europa, quanto per sottrarre all’Ucraina ed alla Slovacchia complessivamente 3 mld. di doll. all’anno. Tali sono, infatti, i pedaggi che il transito del gas russo porta oggi a questi due paesi. Quindi, il Nord Stream 2 era un tubo gradito da Barak Obama e dai produttori statunitensi di shale gas quanto una ditata nell’occhio. E’ tutto da veder se, con Donald Trump insediato a Washington, le cose staranno ancora così. Per ora il presidente americano e quello russo sembrano più che altro due cani che s’annusano per decidere se assalirsi a vicenda o trovare un modus vivendi. Solo gli dei sanno ove finisce il sasso lanciato dalla mano dell’uomo, ammonisce Schiller.