L’ondata di caldo che ha colpito la penisola in queste ultime settimane è l’ennesima testimonianza delle conseguenze dei cambiamenti climatici che vedono proprio l’area mediterranea come uno dei cosiddetti “hot spot”. Le temperature “record”, termine a cui, da un pò di tempo, sembra dover fare riferimento praticamente ogni anno, hanno causato danni alle colture, con ortaggi e frutta scottati, mentre nelle stalle hanno fatto registrare un calo della produzione di latte. Siccità al Sud e problemi anche alle operazioni di raccolta, con il blocco delle attività nelle ore centrali della giornata, sono stati oggetto di un primo monitoraggio di Coldiretti sull’ondata di calore.
In termini di impatto anche economico, il caldo ha già causato danni alla produzione di latte in Lombardia, dove si produce quasi la metà del latte italiano, in cui si è registrato un calo della produzione del 10%, con punte anche del 15%. Ciò significa che ogni giorno, nella sola regione lombarda, si producono circa un milione e ottocentomila litri di latte in meno rispetto ai periodi normali. Al calo della produzione si aggiunge, peraltro, l’aumento dei costi con gli allevatori costretti ad attivare ventilatori e doccette nelle stalle per dare sollievo agli animali, mentre i pasti sono integrati con sali minerali e potassio e vengono somministrati un pò per volta per aiutare il bestiame a nutrirsi al meglio senza appesantirsi. In Piemonte il caldo ha anticipato la maturazione di 10/15 giorni soprattutto per grano, orzo, pomodoro e uva. Nella provincia di Torino i produttori sono ricorsi ai teli per ombreggiare la frutta e salvarla dalle scottature e si registra anche una presenza maggiore di Popilia Japonica, il coleottero giapponese che colpisce vigneti e frutteti. Un altro aspetto da segnalare nel Nord Italia è quello del maltempo e dei fenomeni estremi, con la Val d’Aosta colpita da grandinate notturne, oltre che da frane e smottamenti.
In Toscana il caldo ha “bruciato” centinaia di chilogrammi di meloni nella campagna maremmana rendendoli di fatto non più adatti alla vendita, mentre cresce l’allarme anche per angurie, susine, pesche, pomodori e melanzane. In Umbria per le temperature record sono già andate in sofferenza le colture primaverili come girasole e mais. Allarme produzione di latte anche nel Molise, dove vari allevamenti registrano un calo fino al 30%. Anche al Sud l’ondata di calore ha inciso sulle produzioni: in Puglia riduzioni per uova, latte e miele, oltre ad aver fatto crollare quelle di foraggio, avena e orzo, necessari per l’alimentazione del bestiame.
Ma l’emergenza più grave resta la siccità, con oltre 164 milioni di metri cubi di acqua in meno rispetto alla capienza degli invasi, con le conseguenti difficoltà a garantire l’irrigazione delle colture. Anche nella Nurra, in Sardegna si aggrava il problema della mancanza d’acqua. Il locale consorzio di bonifica da questi giorni ha interrotto anche le irrigazioni per l’erba medica, con i relativi problemi a garantire i foraggi per l’alimentazione degli animali. Nella Sicilia occidentale soffrono le colture con la distribuzione idrica che avviene a singhiozzo.
Leggendo quello che sembra un “bollettino di guerra” per le conseguenze dell’andamento climatico sulle produzioni agricole, non si può non rilevare, infatti, come la preoccupazione maggiore riguardi la disponibilità di acqua. Il grande caldo, infatti, ha accentuato la crisi idrica, specie in alcune regioni del Sud Italia, nonostante l’attivazione di misure di contenimento dei consumi.
Secondo i dati dell’Osservatorio Anbi sulle Risorse Idriche, ad esempio, nella Capitanata pugliese, probabilmente il territorio più arido del Paese nel 2025, si è già perso il 20% delle superfici coltivate a pomodoro. Altra grave situazione è quella della Basilicata, dove l’acqua disponibile nei bacini si è ridotta di circa 13 milioni di metri cubi in 10 giorni. In Sicilia, nei primi 20 giorni di giugno, la quantità d’acqua conservata negli invasi è calata di circa 10 milioni di metri cubi, attestandosi attorno ai 360 milioni. Risalendo la penisola, i fiumi della Campania sono tutti in calo con il record del Garigliano, il cui fluire in alveo si è abbassato di 28 centimetri in una settimana. Al centro, continua ad allarmare la condizione dei laghi a causa del costante abbassamento dei livelli idrometrici: nel Lazio, i due invasi “castellani” della provincia di Roma (Albano e Nemi) sono scesi, in 7 giorni, rispettivamente, di 3 e 2 centimetri. In riduzione sono anche le portate dei fiumi Tevere e Aniene.
Mentre l’Autorità del bacino distrettuale dell’Appennino Centrale ha annunciato l’accordo per destinare parte delle acque del bacino toscano di Montedoglio all’asfittico lago Trasimeno (in pochi anni ha perso un metro sui 6 di altezza media), vanno riducendosi anche i livelli di altri corpi idrici dell’Umbria. Scarse sono state le piogge anche in Abruzzo, specie nella provincia di Chieti (una delle città più a rischio per il potabile) con soli 4,5 mm di precipitazione cumulata media a giugno. In Toscana la portata del fiume Ombrone (mc/s 1,54) è tornata a scendere al di sotto del deflusso minimo vitale (Dmv). Anche al Nord, si registra un andamento dei flussi idrici ovunque in calo, anche se, a seguito degli annunciati eventi meteo, tale condizione potrebbe repentinamente cambiare, con rischi per la sicurezza idrogeologica dei territori sub-alpini e della Liguria (in primis, il Levante e la provincia di Genova).
I flussi idrici nel fiume Po, ancora, continuano a registrare la netta contrazione in atto da settimane: a Pontelagoscuro, il deficit è di circa il 60%. Anche in Piemonte le altezze idrometriche dei fiumi sono a oggi decrescenti e in Lombardia le riserve idriche registrano un deficit di 156 milioni di metri cubi rispetto alla media storica. Nel Veneto le portate dei fiumi sono nettamente più basse del normale: il deficit di portata dell’Adige è stimabile al 56,5%, mentre quello della Livenza è di circa il 40%. In Emilia-Romagna, infine, i flussi dei fiumi appenninici sono scarsi e, nel caso della Secchia, inferiori ai valori minimi storici.
I dati sin qui descritti, sia per quanto riguarda i danni subiti alle produzioni agro-zootecniche a causa del caldo, sia quelli che testimoniano una generale scarsità di disponibilità idrica, causata dalla siccità, impongono una nuova ed urgente visione sul tema dell’adattamento climatico, specie per quanto riguarda la gestione idrica e la prevenzione. Sul tema, in un anno come questo, già segnato da quasi mille eventi estremi in Italia, si registra l’appello, da parte del Presidente della Repubblica, ad investire di più nella prevenzione dei danni climatici. Secondo una recente indagine Eurobarometro, infatti, il 48% degli italiani si sente personalmente esposto ai rischi ambientali e climatici, contro il 38% della media europea. Un segnale chiaro di quanto il tema sia sentito anche a livello sociale.
Anche Coldiretti ribadisce l’urgenza di soluzioni strutturali e durature, proponendo, come primo passo, la realizzazione di un piano nazionale di invasi per la raccolta e la gestione dell’acqua, integrato da sistemi di pompaggio per generare anche energia elettrica. L’obiettivo è raddoppiare la capacità di raccolta dell’acqua piovana (oggi ferma all’11%), rendendola disponibile per usi civili, produzione agricola ed energia pulita, contribuendo anche a regolare l’impatto delle piogge intense. Una rete efficiente di bacini, infatti, permetterebbe non solo di limitare i danni da alluvioni, ma anche di affrontare i lunghi periodi di siccità, sempre più frequenti nel nostro Paese. La disponibilità idrica è cruciale soprattutto per l’agroalimentare italiano, dove circa il 41% del valore aggiunto dipende da produzioni irrigue.
Il tema dell’adattamento climatico, che contiene quello della prevenzione, in un Paese come il nostro, particolarmente vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico, dovrebbe essere di primaria importanza.
Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (PNAAC), approvato un anno e mezzo fa, è senz’altro da ritenersi uno strumento fondamentale per la necessaria programmazione di interventi resi particolarmente complessi dalla loro multidisciplinarietà e multi-territorialità e per la conseguente difficoltà di definire un adeguato sistema di governance, ma la sua efficacia rischia di restare limitata a causa dei ritardi accumulati e per la mancanza di dotazioni finanziarie specifiche. Serve, evidentemente, uno sforzo maggiore per affrontare un tema di così enorme impatto sulle dinamiche sociali, ambientali ed economiche, come è quello dell’adattamento ai cambiamenti climatici. In ambito agricolo, settore che si dimostra tra i più vulnerabili al tema, per favorire la resilienza climatica sarebbe opportuna, infatti, una azione di maggiore sostegno alla diffusione di strumenti specifici. Investire nella prevenzione significa, infatti, anche puntare sull’innovazione. Le campagne italiane, ad esempio, stanno adottando sempre più frequentemente sistemi di irrigazione di precisione e l’impiego di centraline meteo connesse a satelliti che permettono di ottimizzare l’uso delle risorse, risparmiando acqua ed energia. Altrettanto importante sarebbe, inoltre, poter disporre di prodotti assicurativi specifici contro i rischi climatici, così come la diffusione delle Tea (tecniche di evoluzione assistita), strumenti fondamentali per lo sviluppo di colture più resistenti ai cambiamenti climatici e con un minore impatto ambientale, grazie alla riduzione di input chimici.



















