“Green Deal o Green Dogma?” il titolo di questo nostro appuntamento. Abbiamo voluto il punto interrogativo perché non abbiamo la pretesa di sentenziare, ma quella di argomentare. Porci domande. Mettere in luce faglie e contraddizioni di un processo così complesso. Fiduciosi, come sempre, nella forza trasformativa del confronto. Faremo una riflessione a più voci sulle politiche energetiche dell’ultimo decennio. Tanto è trascorso dalla celebre Conferenza di Parigi — uno spartiacque anche simbolico dell’Azione per il Clima. Lo faremo col focus su ciò che ci è proprio: la mobilità, i trasporti, il ruolo del downstream petrolifero, anch’esso in trasformazione, e delle energie per la mobilità. Questi anni di politiche per la transizione e la decarbonizzazione, si presentano straordinariamente ricchi di lezioni.

Dove eravamo? Dove siamo? Come sta andando? Partiamo dalla fine del 2024, anno eccezionale per due record in particolare.

Da un lato, la produzione mondiale di energia da eolico e solare ha raggiunto livelli impensabili solo pochi anni fa: 15% della generazione elettrica globale, con un vero crollo dei prezzi delle tecnologie di punta, in particolare del fotovoltaico. Dall’altro lato, è stato anche un anno record per l’energia prodotta da fonti fossili: petrolio, gas, carbone. La loro quota nel mix energetico mondiale è cambiata poco: era 85% nel 1990, è 80% oggi. Tecnicamente, non stiamo vivendo una transizione, ma piuttosto un’addizione energetica. Le fonti rinnovabili — vecchie e nuove — non stanno sostituendo quelle tradizionali, come era nei piani. Si stanno aggiungendo. “Nulla di nuovo sotto il sole”.

Nessuna delle transizioni energetiche del passato è mai stata una sostituzione netta o repentina:

  • il carbone non ha sostituito la legna,
  • il petrolio non ha sostituito il carbone,
  • il gas non ha sostituito il petrolio,
  • le rinnovabili o il nucleare non stanno sostituendo le fossili.

Anzi, ciascuna di queste fonti ha continuato a crescere in termini assoluti, di pari passo con l’espansione demografica e la crescente fame di energia delle società umane. Di pari passo, purtroppo, sono cresciute anche le emissioni climalteranti. Siamo ben lontani dall’obiettivo Net Zero Emission 2050. Anzi: stiamo marciando nella direzione opposta.

L’Agenzia Internazionale dell’Energia stimava che le emissioni globali dovessero scendere da 33,9 miliardi di tonnellate nel 2020 a 21,2 nel 2030. Invece, nel 2023, sono salite a 37,4 miliardi. Apparentemente, non stiamo semplicemente andando troppo piano. Stiamo proprio andando nella direzione sbagliata.

I ritardi non riguardano solo Cina, India, o altri Paesi dei BRICS, dove le priorità restano la lotta alla povertà e la crescita del PIL.

E guai a dimenticare che 3 miliardi di persone nel Sud globale consumano in un anno meno elettricità di un frigorifero americano.

Guai a non considerare gli enormi conflitti distributivi Nord-Sud, Est-Ovest che si aprono in un processo rivoluzionario come questo, e quindi la necessità di una governance globale credibile.

Ma sono in ritardo anche Stati Uniti ed Europa, sulle direttrici chiave:

• Decarbonizzare l’elettricità (che rappresenta solo il 22% dei consumi finali della UE),

• Elettrificare i trasporti (il 27% dei consumi finali UE),

• Decarbonizzare il calore, industriale e residenziale (ben il 50% degli usi finali UE).

Missioni ancor più difficili con una domanda in continua crescita, trainata dall’Universo Digitale, già oggi stimato il terzo o quarto emettitore al mondo di CO2 eq. Insomma, c’è un divario enorme tra le previsioni del passato — più o meno interessate —, la narrazione e la realtà. Ma, per fortuna, alcune lezioni iniziano a essere chiare:

  1. Gli obiettivi climatici non si realizzano nel vuoto di laboratorio, ma in un mondo complesso più di qualunque modello o scenario.
  2. La transizione non riguarda solo l’energia, ma significa rimodellare l’intera economia globale: 8 miliardi di individui, 115 mila miliardi di dollari.
  3. È illusorio pensare che ciò avverrà con una progressione lineare e costante. Sarà un processo multidimensionale, con tempi diversi, mix energetici e tecnologici diversi, a seconda delle priorità e capacità dei singoli Paesi e industrie.
  4. La pandemia, le guerre, la crisi energetica hanno riportato il faro sul trilemma energetico: sicurezza, sostenibilità, economicità. Alla lunga, uno non sta in piedi senza l’altro. E questo equilibrio simultaneo è molto difficile da mantenere.
  5. L’energia a basso costo è vitale: senza di essa, non solo ci si impoverisce, ma si perde il consenso politico alla transizione.
  6. Serve un bagno di realismo e pragmatismo: accettare difficili compromessi, vincoli geopolitici, economici e materiali.
  7. Il petrolio ci servirà ancora a lungo. Investire in questa filiera è prudente, diligente, necessario. Non per un favore alle lobby, ma perché ciò è parte essenziale della transizione possibile, che è diversa da quella sognata.

A queste esigenze risponde l’appello alla neutralità tecnologica, purtroppo ancora oggi tradito dalle politiche europee, nonostante alcune recenti, ma vuote, aperture retoriche.

Politiche che, peraltro, si sono rivelate spesso scoordinate, miopi e incoerenti. Basti pensare al “ban ICE” al 2035, che sta condannando l’automotive europeo al declino, dopo decenni di investimenti e innovazione tecnologica fatti sul motore endotermico per ridurne l’impronta carbonica e quasi azzerare le emissioni locali (da Euro 0 – Euro 6d).

Per non dire della chiusura demenziale che permane sui biocarburanti. Un acuto osservatore di questi temi ha recentemente riproposto un efficace ammonimento di J.M. Keynes: «È inutile rimproverare le linee perché non vanno dritte.»

Credo sia particolarmente calzante e lo userei come filo logico dei nostri lavori. La transizione energetica non andrà dritta. Avrà un percorso più articolato. Meglio accettarlo. Impegnarsi seriamente per governare con razionalità, piuttosto che inseguire illusioni.