Tra le parole chiave dell’energia emerse nell’evento che Assorisorse e RiEnergia hanno organizzato nell’ambito di OMC 2025 figurano le parole “gas” e “sostituibilità”. Su queste ha riflettuto il Prof. Massimo Nicolazzi, sottolineando l’importanza che ha avuto e che ancora avrà questa fonte nel soddisfare una crescente fame di energia e nel permettere forniture stabili in un mondo che va ancora a rilento, e con evidente difficoltà oggettive, verso uno sviluppo massiccio delle fonti rinnovabili. Prendendo spunto dal suo intervento in occasione di OMC, nell’articolo che segue, Nicolazzi continua il suo ragionamento soffermandosi su un altro aspetto importante che ruota intorno alla commodity gas, ovvero la sua disponibilità futura, la sua provenienza, compresa quella russa, e la sua convenienza.   

Ci diciamo in coro che non siamo competitivi soprattutto per gli alti costi dell’energia. Proviamo a declinarlo con riferimento al gas. Anzitutto competitivi rispetto a chi? Rispetto al resto dell’Europa, e in particolare alla Germania, il gas arriva da noi con una spesso sensibile differenza di costo. Di regola (a torto o a ragione) lo spread viene rilevato come differenziale tra prezzo nazionale (da noi, quello misurato al Punto di Scambio Virtuale) e prezzo al TTF. Lo spread poi varia quotidianamente, a seconda delle condizioni regionali di mercato. Ha avuto un picco a inizio del 2023 di oltre 6 cent. euro per metro cubo; ha brevemente avuto una situazione di sostanziale parità a novembre 2023; e quest’anno ha oscillato tra poco più di 1 cent e oltre 4 cent. euro mc. Il prezzo del gas è volatile; ma lo spread di più. Per converso lo spread TTF/NCG-THE (la piattaforma tedesca) è rimasto sostanzialmente costante oscillando tra valori addirittura lievemente negativi e un massimo di poco superiore a 1 cent. euro mc.

In punto di competitività il differenziale colpisce in funzione dell’intensità energetica delle singole produzioni/servizi. I c.d. energivori sono ovviamente i soggetti più colpiti; donde la penalizzazione ad es. del cementiere italiano rispetto a quello tedesco.

Lo spread ha poi una sua ragione storica. I flussi di gas in importazione in Europa viaggiavano storicamente da Est a Ovest e da Nord a Sud. Portare gas russo o norvegese in Italia costava per definizione di più che portarlo solo fino in Germania; e il prezzo di tutela calcolato dall’Autorità sulla base dell’andamento del TTF comprendeva nel decennio scorso anche una componente maggiorativa in relazione agli oneri di importazione. 

La liberalizzazione ha poi apparentemente fatto esplodere la volatilità dello spread, e qualcuno questa nuova volatilità la addebita a speculazione. Sul che giusto una battuta. Che la sempre crescente finanziarizzazione del mercato aiuti le montagne russe è più che possibile; però quando seguo il quotidiano mi capita spesso di vedere spread in crescita a mercato nazionale (fisicamente) corto, e viceversa. La correlazione non è sempre perfetta; però sicuramente non spuria. I fondamentali possono ancora essere di aiuto.

Che fare? Portare più volumi da Sud un poco dovrebbe aiutare, che c’è qualche contratto di lungo arrivante via Mediterraneo che vende a (leggero) sconto sul PSV.  Leggo poi di varie proposte e iniziative a soccorso degli energivori. A me ne viene da aggiungerne una di banale semplicità. Un tax credit per gli energivori pari al differenziale di prezzo tra TTF e PSV. Mi si tuonerà che sarebbe un aiuto di Stato. Formalmente anche sì; ma nella sostanza varrebbe la pena di ricordare il divieto di aiuti di Stato nasce a tutela della libera concorrenza. Equiparare il costo del gas del cementiere italiano a quello del cementiere tedesco non altera la concorrenza, ma anzi la favorisce. Non vi vedrei scandalo né violazione sanzionabile della normativa europea, se non potenzialmente per la discriminazione tra chi è energivoro e chi no. Può darsi perciò che per il tax credit si profili un’alternativa secca tra non applicarlo proprio o applicarlo a tutti, ma da qui non mi resta comunque, e non senza qualche tremore per l’uso che ne faranno, che lasciarla ai giuristi.

Per la competitività sul mercato europeo qualcosa per la materia prima gas si può fare; ma per l’altrove?  In realtà in punto di competitività con gli Stati Uniti non c’è rimedio. Sono diventati esportatori netti; e usano il gas tra l’altro per alimentare la loro petrolchimica di base, che negli ultimi anni hanno in buona parte rimpatriato (il differenziale costo del gas fa premio sul differenziale costo del lavoro) rinazionalizzando migliaia di posti di lavoro. Noi per soddisfare l’ultimo metro cubo di domanda siamo in concorrenza con il mercato asiatico; e tra il prezzo da un lato europeo (TTF)/asiatico (JKM) e dall’altro quello interno americano (Henry Hub) è corsa negli ultimi anni una differenza a volte anche superiore al 400%. Il 15 maggio, per far d’esempio, Henry Hub quotava sopra gli 11 €/KWh, e veniva da un mese in costante rialzo; e TTF e JKM erano entrambi sopra i 35 €/KWh e leggermente in ribasso rispetto al mese precedente. Per il cementiere italiano qualcosa con un po' di elasticità si può fare; per la petrochimica europea, al netto dell’imboccare la folle via dei dazi, temo molto meno.

Però, qualcuno sommessamente teorizza, potrebbe venirci in soccorso il Cavaliere Bianco. Anzi, il Cavaliere Russo. Ci narra la vulgata che il suo gas gassoso costa un botto meno dell’americano liquido; e che se scoppia la pace o anche solo una treguetta lui ce ne manda una marea e persino per l’ultimo energivoro ci ridà speranza.

Che costi meno è però credenza figlia di un piccolo errore concettuale, consistente nell’assimilare il prezzo di una commodity al suo costo di produzione. Il prezzo è figlio di domanda e offerta, non giusto del costo di produzione. È ovvio che portare qui gas via tubi, magari del tutto ammortizzati, “costi” normalmente meno che liquefarlo e portarselo via nave mantenendolo a -150 di temperatura. Però per come è strutturato il mercato oggi alla fine lo “paghi” uguale indipendentemente dall’origine e dall’infrastruttura. Il prezzo lo fa il metro cubo marginale, l’ultimo che soddisfa la domanda. I contratti russi di lungo periodo erano infine indicizzati “gas to gas”, e in pratica in Europa indicizzati TTF o NCG-THE. Erano “price takers”. Il prezzo finale, via indicizzazione, lo determinava il prezzo-hub, spesso a sua volta marginalmente determinato da GNL spot. In definitiva, se mi è consentita la forzatura, il prezzo del russo lo faceva l’americano.

Il prezzo americano oggi ha una qualche sua relazione con il costo di produzione? Se guardate i prezzi del 15 aprile, maggiorate HH del 15% (che rappresenta il costo della liquefazione) fate un costo di viaggio (per l’Europa) di  1,54 euro/MWh, e uno di rigassificazione di 0,61e vi verrà al netto delle perdite di carico un margine superiore ai 20 €MWh. Sembra un margine (>100%) da dettagliante di beni (quasi) di lusso più che un parente del costo di produzione.

Si però, potreste obiettare, se aumento l’offerta il prezzo comunque cala. Sicuramente sì. Però col limite della remunerazione del metro cubo marginale. Il russo da solo comunque non basterebbe a soddisfare per intero la domanda (a proposito di dipendenze…) e il price maker continuerebbe a far l’americano. Detta in soldoni, ai valori di oggi se l’offerta si fa sovrabbondante magari da 35 scendiamo a 25; però non molto più sotto. Agli 11 di Henry Hub non ci andiamo neanche vicini; e il petrolchimico comunque ci vacilla.

Cambiamo, dice qualcuno, la struttura del mercato. Facciamo contratti di lungo periodo a prezzo fisso (e con chi?); facciamo il mercato del russo e quello degli altri (e chi lo dice al russo?); e così a seguire, laddove il rattoppo par sempre e comunque peggio del buco. Difficile che la struttura del mercato cambi, e se queste sono le alternative rischia comunque di cambiarci in peggio.

Poi ci sarebbe da chiederci se in punto di volumi e/o di prezzi il russo comunque ci serva pur magari non cambiandoci troppo la vita.

I volumi. All’inizio di quest’anno erano in costruzione o approvate per l’investimento un totale di 210,3 MTPA di nuova capacità di liquefazione, di cui 53,7 dovrebbero essere completate entro il 2026 e ulteriori 170 entro il 2028, con un aumento in quattro anni di circa il 50% della capacità disponibile nel 2024. Al netto di smodate crescite del consumo asiatico, la previsione più ricorrente è nel senso che questo aumento della capacità produttiva già consenta di disporre di capacità di riserva alimentando anche di conseguenza nuova domanda. Per dirla con il World Energy Report di IGU (2025) “this significant capacity growth could cause a price reduction and spark a surge in LNG demand”.

Se mettiamo assieme la crescita dell’offerta mondiale di GNL e il tendenziale ristagno se non contrazione dei consumi europei (per chi non se lo ricorda, i programmi di decarbonizzazione dell’Unione Europea prevedono una significativa riduzione dei nostri consumi di gas fossile; che poi si faccia - come sempre per quel che si decide a Bruxelles - è giusto questione di opinione) fanno sì che eventuali volumi russi siano meno che indispensabili; e in punto di prezzo se la previsione di IGU ci azzecca rischiamo di scendere verso i 25 euro/MWh solo per aumento della disponibilità del liquefatto e senza necessità di rimettere in circolo il russo via tubo.

Poi potete però vederla in punto di sicurezza. In epoca digitale e di IA coi fossili l’unica forma sperimentata di sicurezza continua a essere la ridondanza. Il russo che nello scenario della ridondanza da dipendenza si fa magazzino o se volete riserva o se volete scorta.

Qualcuno infine il gas russo vorrebbe portarlo sul tavolo della pace (se mai ci sarà). Facciano pure, però con qualche istruzione per l’uso. Una premessa è che l’Unione Europea non ha mai formalmente vietato l’importazione del gas russo, alimentando così l’incubo che seppur magari in piccole dosi non se ne potesse comunque fare a meno. Adesso invece ci sta infine pensando seriamente, che magari hanno letto il Report IGU o comunque si sono convinti che l’offerta abbia imboccato il sentiero dell’abbondanza; laddove il russo, al più, si fa come detto riserva di sicurezza. E in realtà per posizione ufficiale neanche quello, posto che il Commissario Jorgensen ha recentemente confermato che l’obiettivo UE è la totale liberazione dal gas russo entro la fine del 2027.

La seconda premessa è che prima della guerra via tubo, il russo ci mandava in Europa grosso modo 130 miliardi di mc all’anno; e adesso più di 100 di quei miliardi di mc non se li esporta più e gli restano in giacimento. A 35 o anche a 25 cent. euro mc fate voi il conto di quanto perde di incassi un’economia come quella russa significativamente dipendente dall’esportazione di idrocarburi.

Le due premesse giusto per dire che gli scenari che si disegnano sulla base dell’aumento già approvato (e che a sua volta è solo una frazione del progettato) della capacità di liquefazione e delle sue conseguenze anche di prezzo fanno sì che, al netto di decisioni politiche e in punto di soli costi/benefici comparati, a riprendere le importazioni di gas russo via tubo saremmo noi a fare un favore a loro più di quanto loro non lo farebbero a noi. Per noi è riserva; e per loro (vitale) flusso di cassa.

E dunque se l’Europa vuole porti, pure il gas russo sul tavolo della pace (ammesso non solo che ci sia il tavolo, ma anche che l’Europa vi sia invitata).  E però negozialmente come concessione, e non come richiesta.

Ti facciamo il favore di comprare il tuo gas.  Ti compriamo metri cubi, e però in cambio tu rinunci a metri quadrati (ucraini).   L’idea di negoziare un simile concambio potrebbe portarsi appresso un qualche fascino.