Solo 10 anni fa la rappresentazione del mondo come è oggi sarebbe sembrata improponibile e ai limiti della fantascienza. Pur sotto i primi colpi disgreganti di un progressivo scollamento dei rapporti internazionali, ci si trovava ancora in un quadro globale di relativa stabilità in tutti i campi, dall’economico al politico, dal tecnologico all’energetico, dal sanitario al sociale. Poi è iniziata l’epoca delle grandi crisi in cui attualmente viviamo e che non poco ci preoccupano. Crisi successive di portata sempre più ampia, molte delle quali addirittura crisi globali. Al punto che ormai è diventato normale e ripetitivo parlare di “policrisi”, con i meno ottimisti, o più realisti, propensi a dichiarare ormai in atto una “permacrisi”.

Non occorre veramente stilarne l’elenco, molte sono sotto i nostri occhi, come l’Ucraina, il Medio Oriente, il riscaldamento globale, la complessa transizione energetica, il degrado delle istituzioni sovranazionali le minacce antidemocratiche. Altre sono appena sotto l’orizzonte, come la pandemia da Covid, la disfida tecnologica e le questioni del lavoro, il crescente protezionismo economico e commerciale. Ne siamo ben consapevoli e ci rendono la vita difficile, non solo sotto un profilo psicologico individuale e collettivo, ma sempre più concreto e materiale.

A queste crisi Rapporto Macrotrends ha dedicato le pubblicazioni degli ultimi anni in un crescendo inquietante reso evidente dai titoli: 2021, Dal new normal al never normal; 2022, Il nuovo (dis)ordine globale; 2023, Tra globalizzazione e frammentazione. Si è progressivamente descritto un flusso sempre più intenso di cambiamenti in parte costruttivi, ma in gran parte decisamente destabilizzanti, in un contesto che ha visto crescere i punti di divisione e ridursi le aree di collaborazione e cooperazione multilaterale. Queste analisi ci hanno portato, alle soglie del 2025, a guardare a quello che appare oggi, e in prospettiva, come un fenomeno che sta probabilmente alla base di tutte le crisi che si stanno affrontando: un indebolimento inquietante delle capacità di governo e di leadership nelle diverse situazioni e accezioni.

In questo rapporto, emergono in modo diffuso le preoccupate considerazioni relative alle difficoltà che sorgono nei diversi ambiti per la crisi della leadership. La osserviamo nelle grandi istituzioni internazionali e sovranazionali, che avevano garantito lo straordinario sviluppo dei primi 75 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. La vediamo esplicarsi nella crisi delle democrazie che, in numero crescente, in Europa e altrove, hanno ceduto e cedono alla pericolosa lusinga dell’autocrazia o della tirannia vera e propria. La lamentiamo nell’incapacità dei leader di grandi potenze di guardare al futuro con equilibrio e lungimiranza per tornare a logiche belliciste novecentesche o, in qualche caso estremo, medievali. E ne prendiamo atto constatando l’evoluzione scarsamente contrastata di grandi complessi ultra-avanzati di imprese che dominano il campo delle tecnologie e condizionano i mercati e, in alcuni casi, gli stessi assetti competitivi.

La mancanza, in troppe situazioni, di una leadership responsabile è spesso alle origini delle crisi che sperimentiamo o, quando non alla fonte, di cui lamentiamo l’incapacità di affrontarle, governarle e risolverle.

Un’attenzione particolare viene riservata, in questo rapporto, al tema della transizione energetica e del cambiamento climatico per i quali ci si chiede come accordare le esigenze del domani (costruire un futuro decarbonizzato) con quelle più stringenti dell’oggi (disporre di approvvigionamenti energetici sicuri ed economicamente accessibili). Le prime hanno trovato un viatico incoraggiante nella formula del “transition away” elaborata alla Cop28, anche se per alcuni il ritmo dell’addio alle fonti fossili non è ancora del tutto soddisfacente. Le seconde, legate a sicurezza e sostenibilità energetica, fino a poco meno di tre anni fa erano addirittura fuori dal radar di qualunque strategia di risk management, venendo semplicemente date per scontate.

Ma accanto alla questione energetico-climatica si è ormai imposta anche una questione sociale. Se per un verso è lecito attendersi, come sta già accadendo, che le aree climaticamente più fragili del pianeta possano riversare su altri Paesi quote crescenti di migranti, per un altro verso ulteriori tensioni sociali finiscono per essere alimentate, almeno in parte, da alcune storture della transizione stessa, che sarà “just”, e quindi accettata, nella sola misura in cui saprà accompagnare le tante filiere economiche e i relativi equilibri sociali ancora profondamente legati alle fonti fossili, dalle quali dipende oggi l’80% degli usi finali dell’energia, più o meno come 50 anni fa.

Occorre, dunque, aumentare gli investimenti in fonti rinnovabili avendo, comunque, ben presente che ampi margini di miglioramento permangono sul versante dell’efficienza energetica, una miniera intaccata con eccessiva timidezza, con il rischio di vanificare i benefici del progressivo sviluppo delle rinnovabili, i cui incrementi vanno perlopiù a coprire una parte dei nuovi consumi e non a decarbonizzare quelli esistenti. E ricordare, altresì, che quand’anche disponessimo di tutte le risorse economiche necessarie, tuttavia, resterebbero da affrontare le questioni geopolitiche e le frammentazioni cui esse stanno dando luogo, con incognite e possibili distorsioni del mercato energetico.

Rapporto Macrotrends, giunto al decimo anno di vita, propone dunque una visione anticipatoria dei nostri futuri possibili in cui, a contrastare le concrete minacce della permacrisi, devono ergersi persone e istituzioni all’altezza del compito, in un quadro che occorre riuscire a far tornare sulle basi della cooperazione e collaborazione multilaterale. I 24 saggi di questa edizione sono concordi nell’indicare la strada, evocando una “leadership necessaria” aperta, concreta ma anche visionaria, sulla strada che nel dopoguerra è stata segnata da molti protagonisti della ricostruzione dell’epoca.