C'era una volta un mondo in cui i giovani erano tanti e costituivano la parte prevalente della popolazione, portando tutta la loro forza, energia ed esuberanza nella società e nel mondo del lavoro. L'epoca dei giovani abbondanti è finita, con conseguente rischio di vedere indebolita la spinta a rimettere in discussione il presente e lo slancio a cogliere le nuove opportunità del futuro.

Questa perdita non è scontata, dipende dalla capacità di compensare la riduzione quantitativa delle nuove generazioni (processo di degiovanimento) con: maggior formazione, maggior spazio e strumenti per contare e fare la differenza, migliore inclusione e capacità attrattiva.

Dipende anche da quanto si espande oltre la fase giovanile lo slancio a guardare oltre il presente, a far spazio al nuovo, ad interagire positivamente con esso, a mettere in campo oggi scelte che inglobano il benessere futuro. Tutto questo è ancor più importante nelle società moderne avanzate, dove i processi di cambiamento sono sempre più rapidi e complessi. In questo scenario, quello che ha funzionato fino a ieri e appare valido anche oggi è invece sempre meno predittivo rispetto a quello che servirà domani.

Alla base di questo cambiamento sta la Transizione demografica, un processo che va a ridisegnare permanentemente la struttura della popolazione con profondo impatto sulle dinamiche economiche, sociali e geopolitiche. L'Europa, dove la Transizione demografica ha avuto origine, rappresenta la punta più avanzata di tale processo. Se non si attrezza a gestire adeguatamente questa trasformazione, il Vecchio Continente rischia sia di accentuare le fragilità interne (con intreccio tra diseguaglianze sociali e disparità territoriali) sia di indebolirsi verso l'esterno (meno peso e rilevanza nello scenario globale).

Nel contesto europeo l'Italia è tra i paesi che maggiormente stanno subendo in negativo le dinamiche in atto. Più che negli altri paesi con cui ci confrontiamo si sta riducendo nella nostra penisola la forza lavoro potenziale, ma più alta continua ad essere anche la quota di inattivi nella popolazione in età lavorativa. Nei prossimi decenni ci troveremo, come le altre economie mature avanzate, con le generazioni demograficamente consistenti entrate in pensione (con corrispondente forte aumento di domanda di spesa pubblica). Ma più degli altri paesi con cui ci confrontiamo, rischiamo di trovarci con le generazioni entranti in età adulta-matura (i cinquantenni e sessantenni) con peso demografico in diminuzione e occupazione femminile bassa, e con quelle entranti in età adulta centrale con percorsi formativi e occupazionali più deboli, quindi anche con difficoltà a realizzare i propri progetti di vita. Un quadro che allontanerebbe ancor più i giovani dall'Italia e che porterebbe l'immigrazione internazionale di qualità (per livelli di formazione e capacità di integrazione) a privilegiare altre destinazioni rispetto al nostro Paese.

Per evitare di doversi rassegnare a squilibri crescenti, le leve interdipendenti su cui intervenire sono quattro. Le prime due riguardano l'aspetto quantitativo delle nuove generazioni e rinviano a un solido impegno nelle politiche di supporto alla natalità e in grado di favorire l'attrattività (riducendo il saldo negativo della mobilità dei giovani qualificati verso l'estero).

Oltre a non lasciare indebolire la consistenza numerica delle nuove generazioni è ancor più strategico agire anche sulla dimensione qualitativa della formazione e della valorizzazione del capitale umano. Investire nella preparazione delle nuove generazioni consente di aumentare l'efficienza della forza lavoro: riducendo la percentuale di Neet (giovani tra i 18 e i 30 anni che non studiano né lavorano) e migliorando il contributo dei nuovi entranti, in combinazione con l'utilizzo delle nuove tecnologie. In questo modo la riduzione demografica quantitativa può essere, appunto, compensata da un miglioramento qualitativo (in termini di occupazione stabile, benessere lavorativo, produttività e sicurezza).

Agire sul versante qualitativo produce benefici anche su quello quantitativo. Il miglioramento, infatti, dell'occupazione di qualità favorisce la formazione di nuove famiglie da parte dei giovani italiani e rende anche i territori più attrattivi per un'immigrazione qualificata. L'aumento dell'occupazione femminile assieme a strumenti di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, ha un effetto positivo sulle nascite e sulle condizioni economiche delle famiglie con figli. Il rafforzamento delle politiche familiari consente agli immigrati per motivi lavorativi di stabilirsi più facilmente e contribuire al miglioramento dei tassi di natalità.

La quarta leva riguarda il potenziamento degli aspetti positivi dell'invecchiamento demografico. Le persone che godono di una vita più lunga e sana hanno maggiori opportunità di crescita personale e professionale. La collaborazione tra generazioni è un ulteriore elemento fondamentale. Aziende che promuovono la collaborazione tra giovani e senior spesso rappresentano punte di eccellenza, dimostrando che una forza lavoro diversificata è più resiliente e innovativa.

Il valore che le persone generano nella loro vita e nel loro lavoro è il fondamento di una società equilibrata, capace di rinnovarsi e crescere economicamente in modo sostenibile. È in questa prospettiva che va trovata la risposta alle sfide del cambiamento demografico. Una sfida che non riguarda solo le politiche pubbliche, ma ancor più il modo in cui aziende, comunità e individui scelgono di affrontare il futuro.